Se si osservano le dinamiche del sistema liberale, risulta evidente come esso si nutra di emergenze: dall’emergenza razzismo e fascismo a livello nazionale a quella climatica e sanitaria a livello mondiale, il mondo guidato dall’élite globalista è un crescendo costante di emergenze, spesso enormemente enfatizzate e manipolate. E questo perché l’emergenza, e la potenziale crisi che ne scaturisce, è il nucleo vitale attorno al quale catalizzare l’attenzione e orientare ideologicamente l’opinione pubblica, oltre che l’espediente per rimodellare i sistemi economici e introdurre nuove politiche in grado di rianimare e rinnovare il sistema predatorio liberista ormai al collasso.

Ne abbiamo avuto un esempio con il Green New Deal, attraverso il quale lo stesso capitalismo responsabile dei disastri ambientali e da cui dipende interamente l’avvelenamento dell’ecosistema, è riuscito a creare nuovi mercati e ad investire in nuove economie, le cosiddette “economie verdi”, anche attraverso gli investimenti e le nuove misure adottate dai tanto vituperati Stati.
Nel caso attuale, l’emergenza sanitaria sta conducendo ad una crisi economica senza precedenti di dimensioni planetarie, la quale però è semplicemente il risultato di un modello economico distorto e non più sostenibile che si perpetua ormai da un trentennio e che necessita di un completo azzeramento. Per tale ragione, ci troviamo di fronte ad uno dei più grandi cambiamenti della storia: stiamo infatti andando incontro all’implosione del sistema capitalistico e della globalizzazione per intraprendere nuovi paradigmi economico-politici che non sappiamo ancora con precisione quali forme assumeranno, ma che probabilmente condurranno ad una dimensione più nazionalista, dove la politica tornerà ad essere centrale e a dominare l’economico.
Un modello predatorio fondato sul debito, su una ricchezza fittizia e sull’egemonia dell’economia finanziaria su quella reale non poteva che presentare il suo conto: i debiti accumulati a livello universale superano il PIL annuale mondiale e la finanza è satura di titoli tossici e tenuta in vita unicamente dalle massicce immissioni di liquidità delle banche centrali.
I nuovi rapporti di forza in ambito geopolitico e le politiche protezionistiche di Trump hanno dato vita ad un processo di “deglobalizzazione” che è stato enormemente accelerato dalla pandemia di Coronavirus e che sarà ulteriormente esasperato dalla crisi economica. Crisi che è sinonimo di cambiamento, ma anche di disagio sociale e sofferenza, perché non è possibile pensare che questo sconvolgimento non lascerà sul campo morti e feriti.
Ma se da un lato, la crisi smaschera le falle del tecno-capitalismo finanziario e della globalizzazione, dall’altro, essa mette in luce anche la vulnerabilità e la finzione dei miti su cui essi si basano, a partire da quello del progresso, concetto tipico della modernità. Per decenni, la narrazione dominante ha associato ad un mero avanzamento temporale un miglioramento costante e illimitato delle condizioni di vita, grazie alle scoperte tecnico-scientifiche. Come si può intuire, il progresso, che va di pari passo con la globalizzazione, riguarda fondamentalmente un piano materiale e quantitativo e la sua caratterizzazione come processo dai risultati potenzialmente “illimitati” rispecchia quella volontà di potenza e di dominio senza confini di un’umanità e di un’ideologia che ha ucciso Dio per sostituirsi ad esso: l’uomo senza limiti ha fatto dell’onnipotenza la sua massima ambizione e ha sostituito al sacro la “religione del progresso”. Tutto infatti dipende da questo concetto e dalle sue “sottocategorie”: la scienza e la tecnica, le quali insieme, secondo la vulgata dominante, sono in grado di soddisfare ogni esigenza dell’uomo post-moderno ed esauriscono le necessità del reale e dell’esistenza. Per questo motivo, il trascendente e tutto ciò che ad esso afferisce – l’arte, il bello, la metafisica e la poesia – sono un inutile ed ingombrante ostacolo da eliminare. Questa concezione, inoltre, è totalmente slegata da qualunque vincolo etico e da qualunque considerazione ad esso collegata. Proprio per la sua mancanza di limiti, infatti, ciò che viene definito progresso non si interroga mai sulle sue ripercussioni antropologiche e sociali, avendo abbattuto tutto ciò che poteva “contenerlo” e sottoporlo a critica. Da qui la tecnica, e la scienza che di essa si serve, è diventata un mezzo per manipolare l’uomo e la vita, dando l’illusione di dominare la totalità del reale, volgendola a proprio favore, ma scatenando in realtà forze sotterranee e meccanismi difficili da controllare, che portano ad una completa negazione della sostanza della natura umana, fino ad arrivare a fonderla con le macchine, in un atto di sfida che poco ha a che fare col progresso e molto con quello che i greci definivano “hybris”, tracotanza.
Questa narrazione del progresso come evoluzione perpetua, che sfocia in quella che può essere definita ideologia tecno-scientista, ha mostrato tutta la sua fragilità e la sua infondatezza proprio nell’attuale crisi economico-sanitaria, nel momento in cui la comunità scientifica, tutt’altro che compatta al suo interno, ha dimostrato la sua impotenza e la sua inadeguatezza nel gestire e prevenire l’emergenza e dal momento che le democrazie liberali, le quali si basano su un modello economico che erode lo stato sociale, non riescono a fornire un’assistenza adeguata ai loro cittadini, sia sul fronte sanitario che economico, con potenziali focolai di rivolta pronti ad esplodere nel sud Italia, ma che potrebbero estendersi ovunque senza i necessari provvedimenti.
È così che “la società del progresso” si trova sull’orlo del precipizio e sarà costretta a resettare l’intero sistema socio-economico da essa stessa creato. Altresì, la tanto decantata tecnologia, si sta rivelando un mezzo di controllo sempre più potente e invasivo, usata, più che per migliorare le condizioni di vita, per limitare le libertà individuali: l’emergenza sanitaria, infatti, ha legittimato l’uso di droni per monitorare i territori ed è pronta un’app da installare sugli smart-phone per monitorare ogni spostamento dei contagiati, sulla scia delle misure adottate in Corea del Sud.
Il rischio, come da molte parti sottolineato, è che queste misure possano cristallizzarsi nel dopo-pandemia, smascherando così anche la vulnerabilità e l’essenza fittizia delle democrazie occidentali, le quali, più che liberali, risultano tecnocratiche.  
Se la crisi contiene in sé i germi del cambiamento, essi sembrano protendere paradossalmente in due direzioni opposte: da un lato, appare all’orizzonte il rischio di un futuro distopico, dominato dalla “dittatura degli esperti”, per cui sta prendendo sempre più piede la figura dello scienziato che si affianca a quella dell’economista, e in cui la tecnica è destinata a diventare un vero e proprio “apparato” totalizzante che domina il mondo; dall’altro, l’attuale sistema economico, fondato sul debito e su meccanismi usurai, non è in grado di reggere l’urto che scaturirà dal blocco completo dell’attività produttiva dei Paesi. Sarà allora necessario, inevitabilmente, il ritorno alle sovranità nazionali e sarà quindi l’occasione, in particolare per l’Italia, di riappropriarsi della sovranità monetaria, sottratta agli Stati da anni di liberismo e di predominio dei mercati, che sono riusciti ad imporsi sull’opinione pubblica grazie allo straordinario potere dei media e della propaganda.
Solo la sovranità monetaria, oculatamente gestita, può garantire prosperità e benessere ai popoli e spazzare via quell’egemonia culturale, costruita accuratamente da chi detiene i mezzi per farlo (ossia il controllo della moneta), che monopolizza e orienta i dibattiti e il pensiero dominante sempre e solo a favore della plutocrazia finanziaria apolide. Solo in tal modo, sarà possibile costruire una contro-egemonia culturale che rimetta al centro i valori tradizionali, sostituiti da quelli inclini alla dissoluzione della cosiddetta “società aperta” e dalla chimera del progresso.
Come lo stesso termine “crisi” – dal greco “krisis” che significa scelta- suggerisce, ci troviamo di fronte a un bivio, a una decisione che può allo stesso modo condurci verso un più stringente controllo sociale, nel caso in cui accettassimo i soliti aiuti degli usurai internazionali, oppure alla rinascita, attraverso un nuovo paradigma socio-economico. E’ dunque dalla consapevolezza, dalla determinazione e dalle scelte della collettività che dipende, in buona parte, la libertà dei popoli e in questo senso, la crisi è un’occasione unica di riscatto e di liberazione.

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