Se da un lato protagoniste indiscusse del tempo pandemico sono state la paura e la cieca obbedienza, dall’altro grande assente risulta la capacità di porsi domande ed esercitare il dubbio, andando oltre le apparenze di quelli che sembrano essere fatti incontrovertibili. Da più parti si è sollevato il tema della libertà in relazione alle “leggi” che sono state disposte per far fronte all’emergenza sanitaria, senza però approfondire il suo reale significato.
Da sempre, l’analisi critica degli avvenimenti non è prerogativa della moltitudine e oggi meno che mai: decenni di globalizzazione, consumismo ed economicismo hanno dato vita ad una concezione fittizia di libertà basata sull’uniformità e l’adesione passiva a tutto ciò che viene proposto “dall’alto” dai colossi multinazionali e da un modello culturale e “educativo” in cui la dissoluzione è abilmente fatta passare per progresso.

Il primato della dimensione economica ha offuscato completamente quella dei valori e ha condotto alla preminenza assoluta dell’homo oeconomicus e dell’individualismo. In questo contesto, tutto ciò che conta non è la ricerca della verità né del bene comune, ma la difesa e il mantenimento del proprio esclusivo interesse. A questo si riduce, infatti, il falso concetto moderno di “libertà”, che nel mondo occidentale secolarizzato non è nient’altro che sinonimo di individualismo. Ne consegue che al porsi domande (scomode) si preferisce l’adattamento a quella “nuova normalità” imposta dal potere plutocratico dei mercati e della finanza, illudendosi così di aver ripristinato la “normalità pre-pandemica”.
Non stupisce, dunque, che sia stato proprio il modello individualista occidentale, orientato esclusivamente al benessere materiale e all’apparenza, ad avere agevolato l’instaurazione di una nuova “ratio” politica e sociale il cui principale obiettivo è la creazione di un nuovo tipo antropologico, all’interno di una cornice sociale ed economica radicalmente mutata sullo sfondo di un’emergenza permanente. Dal canto suo, l’uomo-consumatore non ha esitato a piegarsi alla nuova condizione per la quale i diritti basilari vengono subordinati all’accettazione di un trattamento sanitario (obbligatorio) periodico, considerando un “lasciapassare sanitario” uno strumento di libertà. Del resto, in una dimensione caratterizzata dalla pura materialità, l’unica cosa che ha valore è la “nuda vita” biologica che è così diventata un oggetto di potere.

La cura del corpo ha completamente soppiantato quella dell’anima che, in quanto tale, è immateriale e intangibile e dunque fuori dall’orizzonte dell’uomo secolarizzato. Di conseguenza, l’ipocondria e la “psicosi” sono diventati i tratti tipici della società “tecnosanitaria”.
Proprio la negazione dell’anima, frutto della desacralizzazione della società e della graduale demolizione della cultura cristiana, ha costituito il presupposto su cui è stato possibile costruire quel concetto fallace di “libertà” che si riferisce ad una condizione esclusivamente esteriore, frivola e contingente. Una libertà negativa che si esplica nella possibilità di non riconoscersi in alcun ordinamento superiore, di non identificarsi con alcuna cultura, religione, genere o etnia e, infine, di non avere alcun valore a cui essere fedeli pur di non sacrificare quella stessa vita biologica che per l’homo oeconomicus esaurisce la totalità dell’essenza umana. È questa considerazione della vita umana, ridotta solo all’ambito fisico e materiale, il motivo per cui la civiltà moderna è terrorizzata dalla morte e aspira all’immortalità che ricerca vanamente con tutte le sue forze.

Questa idea di “autodeterminazione” è stata fondata sulla decostruzione dell’autorità, del sacro e di ogni principio. Ossia sulla distruzione dell’autentico concetto di libertà delle società “tradizionali”, per le quali essa è l’adesione volontaria ad un ordine superiore trascendente a cui tutti apparteniamo e senza il quale non potremmo neppure esistere.
A questa “pars destruens” – corrispondente allo sgretolamento del sacro – fa necessariamente seguito una “pars costruens” che consiste nello scolpire l’“uomo nuovo” della dimensione postumana: un uomo devoto al culto della tecnoscienza, persuaso a sostituire al libero arbitrio e all’analisi critica un’obbedienza incondizionata e il cui corpo è rimesso ormai interamente nelle mani dello Stato che ne può disporre senza riserve. A tal fine, la pandemia ha funzionato da motore propulsivo, accelerando anche l’affermazione e lo sviluppo del digitale, delle economie “verdi” e delle piattaforme telematiche. In questo contesto ipertecnologico, l’uomo è sempre meno “umano” e sempre più “automa”: il naturale punto di arrivo di questo sviluppo, che coincide con quella che è stata chiamata “quarta rivoluzione industriale”, pare proprio essere il transumanesimo e l’ibridazione dell’uomo con le macchine.

Ciò che si perde in questa deriva antropologica, insieme all’essenza in sé dell’umano, è proprio quella libertà (da molte parti rivendicata in modo improprio), intesa come scelta di aderire volontariamente al bene e di lottare per esso. Una tale scelta è caratteristica esclusiva della natura umana, in quanto dotata di libero arbitrio ed è invece preclusa alle macchine e all’intelligenza artificiale. Ma è proprio verso la perdita del libero arbitrio che ci stiamo conducendo a grande velocità: nello scenario pandemico e post pandemico non è previsto né tollerato il dissenso che è prontamente represso dai pretoriani dell’informazione “ufficiale”, l’unica certificata e attendibile. Al contrario, è prevista una programmazione e un controllo del “pensiero” per mezzo di una martellante propaganda mediatica, di modo che anche le menti, oltre ai corpi, diventino di proprietà del “potere”. È chiaro, dunque, che si sta bruscamente virando verso una società autoritaria, non essendo più la pseudo democrazia il metodo di governo funzionale agli interessi delle oligarchie finanziarie. Le stesse oligarchie che hanno illuso per decenni il popolo occidentale di poter disporre di una “libertà” illimitata che si è rivelata in realtà mera possibilità di alimentare inconsapevolmente il mondo globalizzato delle merci e dei consumi.

A questo punto, se la democrazia è sempre stata il vanto del mondo liberale da contrapporre ai regimi autocratici come quello cinese, ora per ironia della sorte è proprio al paradigma cinese che l’Occidente guarda per imporre la nuova realtà digitale e poter così competere nell’arena globale dello sviluppo tecnologico. Uno sviluppo che ha come fine ultimo lo svuotamento e la sostituzione dell’umano con le macchine e l’intelligenza artificiale.
È già stato stilato un elenco delle figure professionali che potranno essere sostituite dai robot: si tratta di alcuni operatori sanitari, ma anche di contabili, cassieri, venditori, agricoltori, addetti alle pulizie, agenti, autisti, postini e molto altro. È in corso una “rivoluzione” complessiva a cui i popoli occidentali avrebbero dovuto opporsi riscoprendo quelle radici culturali e spirituali atrofizzate dall’ossessione del progresso tecno-scientifico. E che invece stanno accettando docilmente in nome della pandemia, della salute, della responsabilità e della sicurezza, barattando l’autenticità della natura umana con la “nuova normalità”.

Complice di questa situazione si possono ritenere tutte le istituzioni civili e religiose di ogni ordine e grado, in quanto, salvo eccezioni, nessuno ha denunciato né si è opposto fermamente e pubblicamente a quello che il forum di Davos ha definito il “grande reset”. Al contrario, la complicità verso questo “piano” è ampiamente condivisa da tutti i gangli vitali del potere, in quanto non vi è più alcun “bene” sommo da difendere e a cui aspirare, ma solo la contingenza di poteri terreni a cui assoggettarsi per interessi o per il perseguimento di ideologie pericolose.
Non resta dunque che osservare fino a che punto si voglia spingere e accettare la “falsificazione” e lo scimmiottamento dell’umano, con la consapevolezza che non si può annientare del tutto l’autenticità dell’essere. Tuttavia, nel folle tentativo di riuscirvi, il prezzo da pagare sarà alto. Per questo occorre tornare ad avere come riferimento il Cielo e non l’abisso. Quell’abisso che da decenni, se non da secoli, ci viene propinato con i nomi seducenti di progresso, benessere, uguaglianza, inclusione ed evoluzione. E che ora si sta rivelando per quello che realmente è: nichilismo.

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