La democrazia liberale costituisce il perno attorno a cui ruota il sistema di potere del capitalismo globalista: per questo essa è esaltata in Occidente come la migliore forma di governo in assoluto da estendere a livello universale. La sua pretesa di superiorità, infatti, ne legittima qualunque azione e qualunque imposizione ideologica, sconfinando nell’ossimoro solo apparente della dittatura democratica.

Il cosiddetto mondo libero si ritiene, infatti, investito dal destino del compito messianico di annunciare il verbo del capitalismo ipertecnologico e materialista in tutto il globo. Tuttavia, l’esaltazione della democrazia liberale come unico e migliore metodo di governo è una convinzione pretestuosa di matrice interamente occidentale, che si traduce in un dogma politico meramente ideale: la perfezione della democrazia intesa come sistema di potere in cui è il popolo a prendere le decisioni dirimenti sul destino del Paese si è rivelata spesso un’ingenua utopia, specie all’interno di un paradigma in cui le forze economico-finanziarie esercitano un ruolo d’influenza preponderante sul processo democratico e sulle dinamiche parlamentari.

A tale scopo, la plutocrazia internazionale non si serve solo dell’attività di lobbying – resa legale dal Parlamento europeo – ma ha predisposto fin dal Novecento delle organizzazioni apposite che hanno come obiettivo dichiarato quello di influenzare direttamente le politiche dei governi: si tratta dei cosiddetti think tank che, in modo improprio, è possibile tradurre in italiano come “serbatoi di pensiero”. Quest’ultimi sono gruppi di studio privati, finanziati da organizzazioni e fondazioni filantropiche, ma anche dalle grandi banche e da tutto l’apparato economico-industriale che, col pretesto di fornire ai governi studi e considerazioni svolte dalle figure dei “competenti-tecnici”, riescono a promuovere in modo più o meno occulto gli interessi di una ristretta cupola di potere che si può senza dubbio definire oligarchica.

La nascita dei think tank e delle scienze sociali

La realtà dei think tank nasce negli Stati Uniti all’inizio del Novecento e inizialmente si configura come fenomeno esclusivamente americano che approderà in Europa ben più tardi. Nei primi due decenni del secolo scorso nascono alcuni dei più importanti gruppi di riflessione, alcuni dei quali ancora oggi influenzano il governo degli Stati Uniti e le politiche mondiali: nel 1907 nasce la Russell Sage Foundation, nel 1910 il Carnegie Endowment for International Peace, nel 1916 la Brookings Institution, nel 1919 la Hoover Institution, nel 1920 il National Bureau of Economic Research e nel 1921 il Council on Foreign Relations (CFR).

Tutte queste organizzazioni indipendenti hanno lo scopo di influenzare gli affari pubblici con una precisa agenda e nascono in un clima culturale imbevuto del pensiero positivista ottocentesco, improntato sull’esaltazione del progresso tecno-scientifico e quindi sulla fede nella razionalità come principale mezzo per superare i “limiti” imposti dalla natura. Su queste basi, gli unici criteri ammessi sono quelli quantitativi ed empirici propri del cosiddetto metodo scientifico. L’idea alla base dei think tank era, dunque, quella di applicare tali canoni anche alla gestione della politica e della società, trattando quest’ultima come un oggetto d’analisi di laboratorio da scandagliare attraverso il punto di vista delle cosiddette scienze sociali che si affermano proprio in questo periodo oltreoceano.

Il culto laico della scienza penetrava così nella sfera sociopolitica e antropologica, dando vita alle figure del tecnico, dello scienziato politico e dell’“ingegnere” sociale che sono in forte contrasto con il concetto di popolo e di democrazia: il rapporto tra scienziati sociali e democrazia, infatti, è fondato sulla diffidenza dei primi verso la seconda che, in quanto tale, non si ispira ai metodi delle scienze sociali e, in particolare, delle scienze politiche. Già in questo è possibile riscontrare il problematico rapporto tra think tank e democrazia. Le scienze politiche avrebbero il compito di aiutare i cittadini a conoscere quali politiche preferire, in quanto esse rappresentano «l’uso della ragione e dell’evidenza nello scegliere la migliore delle politiche pubbliche all’interno di un ventaglio di alternative». Questo ventaglio di alternative, tuttavia, rimane sempre interno al perimetro dell’ideologia liberale, e proprio questo, del resto, costituisce uno dei motivi di orgoglio dell’impostazione politica americana, la quale ostenta il fatto di avere abbandonato gli inutili e sterili dibattiti ideologici e di ontologia politica per concentrarsi esclusivamente sulla risoluzione “scientifica” dei problemi pragmatici della società. In ciò si riscontra una delle differenze più profonde con la tradizione politica europea, originariamente improntata su un approccio maggiormente teoretico della disciplina e incentrato sull’analisi storica e filosofica del problema del potere, della sua origine, legittimazione e trasmissione.

Al di là dell’Atlantico, invece, tutto veniva ridotto ad una questione puramente pratica in cui l’obiettivo principale era quello di risolvere i problemi contingenti attraverso tecniche analitiche empiriche e quantitative. Questo metodo avrebbe colonizzato presto anche l’Europa, deludendo però in modo radicale le aspettative di benessere e di “progresso” millantate: il primato dell’economia sulla politica, la globalizzazione, i continui interventi “umanitari” promossi dagli USA e la deregolamentazione finanziaria – tutti elementi partoriti in buona parte dai “pensatoi illuminati”– hanno contribuito a generare crisi economiche in serie e tensioni geopolitiche, creando povertà, gravi tensioni sociali e sconvolgimenti internazionali che hanno toccato l’apice con l’attuale crisi ucraina.

Da un punto di vista prettamente teorico, considerare la società come oggetto scientifico significa non solo negare il concetto di “spirito” e identità dei popoli riducendoli ad un mero aggregato organico materiale, ma anche negare i caratteri qualitativi e imprevedibili – e in quanto tali non controllabili né calcolabili – delle società umane, annientando così nel contesto sociopolitico il concetto qualitativo per eccellenza: l’idea di bene comune, centrale nelle civiltà antiche e che rappresentava per Aristotele lo scopo stesso della politica. Con l’avvento del liberalismo, il bene comune è stato sostituito dal “bene” individuale – in quanto il tessuto sociale del modello liberale è costituito da individui-atomi – e dagli interessi di una ristretta cerchia oligarchica che coincide con i detentori del grande capitale e, dunque, con l’apparato bancario, industriale e finanziario. Dietro i presunti metodi scientifici da applicare alla politica e alla società, infatti, si nascondono spesso gli interessi della plutocrazia che da sempre finanzia lautamente i think tank e che costituisce il cuore dell’impianto capitalista liberal-democratico.

I principali “serbatoi di pensiero” americani

John D. Rockefeller

Tra i più importanti think tank che hanno contribuito a plasmare la politica estera e le decisioni dei governi americani in materia di riforme e politiche fiscali nella prima metà del Novecento, agendo come veri e propri “governi ombra”, si possono annoverare la Brookings Institution, il Council on Foreign Relations (CFR) e la Rand Corporations. Si tratta di istituzioni di orientamento liberale che hanno agito come veri e propri governi paralleli delle amministrazioni democratiche, le quali hanno dominato la vita politica del Paese per più di tre decenni: dagli inizi degli anni Trenta con l’elezione di Franklin D. Roosevelt fino alla vittoria del repubblicano Richard Nixon nel 1968, con la sola eccezione del governo di Eisenhower. Tutte e tre queste organizzazioni incarnano le istanze dell’establishment politico-economico, ossia dei poteri finanziari, bancari, industriali e militari, e hanno in comune il fatto di essere finanziate o sostenute a diverso titolo dalla Fondazione Rockefeller, fondata nel 1913 da John Davison Rockefeller.

La Brookings Institution è considerata tuttora il think tank più importante di Washington: basata sul concetto di efficienza, i suoi obiettivi primari riguardavano la razionalizzazione della spesa pubblica e la diffusione della cultura del management nell’amministrazione politica. I suoi fondatori erano ossessionati dal bilancio federale con il duplice scopo di «razionalizzare la spesa pubblica e indebolire il controllo del potere legislativo (e quindi dei partiti) su di essa». Già qui è possibile osservare come fosse presente la volontà di depoliticizzare la sfera economica, affidandone il controllo ai cosiddetti esperti e alle organizzazioni private. Questione che si sarebbe poi estesa alle banche centrali le quali, secondo la concezione liberale, devono essere indipendenti dal potere politico, sottraendo così agli stati la gestione della politica monetaria e privandoli della sovranità: condizione necessaria per spianare la strada al globalismo. La Brookings ha svolto un ruolo centrale in ogni fase della storia degli Stati Uniti e ancora oggi ha un’influenza notevole sia nella politica estera che in ambito economico.

Il CFR, invece, è una vera e propria istituzione ed è l’organizzazione che ha plasmato l’intera politica estera americana e indirettamente mondiale: i più grandi teorici di politica internazionale sono stati membri del CFR e hanno elaborato i pilastri della geopolitica statunitense, con l’intento di promuovere la politica di potenza americana. L’istituto gestisce, inoltre, il David Rockefeller Studies Program che indirizza la politica estera formulando raccomandazioni all’amministrazione presidenziale e alla comunità diplomatica, testimoniando davanti al Congresso e interagendo con i media. Zbigniew Brzenzinski, autore de La grande scacchiera – caposaldo della geostrategia atlantista – ed ex Consigliere per la sicurezza nazionale sotto Jimmy Carter fu una figura chiave del CFR. L’istituto fu animato fin dagli esordi da personalità di spicco, tra cui il futuro segretario di Stato John F. Dulles, gli uomini del Carnegie Endowment, i banchieri della JP Morgan e tutti i membri dell’élite wilsoniana e cosmopolita americana. Dulles, in particolare, fu l’ideatore della strategia militare della catena di isole volta a contenere la Cina e l’ex URSS e ancora oggi usata per mantenere la Cina nella sua condizione di potenza prettamente terrestre.

Sulla rivista del centro, Foreign Affairs, fu presentata al mondo per la prima volta la dottrina del contenimento di George Kennan per sfidare l’allora nemico sovietico. Inoltre, il gruppo fondatore aveva fatto parte della task force presidenziale di Woodrow Wilson, sostenendo la proposta di creazione della Società delle Nazioni e la definizione dei suoi celebri 14 punti. Per il suo enorme potere di influenza, il CFR è considerato un Dipartimento di Stato ombra. La Rand Corporation (acronimo di Search and Development, ricerca e sviluppo) è il più grande think tank del mondo con un budget annuo che oscilla tra i 200 e i 250 milioni di dollari ed è nato nel 1946 come braccio di ricerca del Dipartimento della difesa che aveva deciso di esternalizzare alcuni programmi di ricerca e progettazione affinché fossero curati dagli esperti: economisti, scienziati e scienziati sociali. Nacquero così i think tank per committenza. Inizialmente fu una collaborazione pubblico/privato nata dallo sforzo congiunto dell’aviazione americana e della Douglas Aircraft Company e fu sostenuta sia dai Rockefeller che dalla Ford Foundation. È considerata la più importante agenzia di consulenza geostrategica al mondo e ha redatto nel 2019 il documento intitolato Sovraestendere e sbilanciare la Russia in cui emerge la preparazione di un piano per sbilanciare e infine abbattere la Russia.

think tank approdano in Europa

Se i primi think tank limitano la loro azione d’influenza prevalentemente al governo americano, nella seconda metà del secolo, la loro azione comincia ad estendersi anche in Europa, col chiaro obiettivo di allineare i governi del Vecchio continente alle direttive americane per la costruzione di un nuovo ordine internazionale economico e geopolitico fondato sul dominio statunitense e della sfera anglo-sionista. Dalla Seconda guerra mondiale in avanti, infatti, i governi europei avrebbero dovuto accreditarsi agli occhi di Washington e i più importanti esponenti dell’oligarchia economica e politica del Vecchio continente non esitarono a sposare i dogmi del razionalismo politico, dell’efficienza e delle scienze sociali.

Con questo intento, dagli anni Cinquanta in avanti vennero istituiti quelli che ancora oggi sono i think tank più famosi, i cui nomi circolano persino tra i non addetti ai lavori: tra questi il Gruppo Bilderberg e la Commissione trilaterale. Entrambi furono fondati da David Rockefeller e Henry Kissinger: i Rockefeller sono una delle famiglie di industriali e di banchieri più potenti del mondo, avendo accumulato un’immensa fortuna attraverso la compagnia petrolifera Standard Oil. La famiglia ha anche guidato negli anni Settanta e Ottanta la Chase Manhattan Bank ed è John D. Rockefeller l’esponente di spicco del mondialismo e della globalizzazione. Attraverso organismi come il Bilderberg e la Trilaterale, l’obiettivo era ed è tuttora quello di attirare i Paesi aderenti nell’orbita statunitense, accelerando l’interdipendenza globale e promuovendo i caposaldi della visione “globalista”, vale a dire atlantismo, liberismo economico, globalizzazione e ultra-progressismo tecno-scientifico.

Il Bilderberg fu fondato nel 1954 e, da allora, i principali esponenti della politica e della finanza, nonché i rappresentanti dell’apparato mediatico, si riuniscono ogni anno per discutere dei più importanti temi riguardanti la politica mondiale. Gli incontri avvengono rigorosamente a porte chiuse, con un dispiegamento ingente di forze di sicurezza e con aree blindate per tutta la durata dell’incontro. In Italia, diversi esponenti politici e dei media hanno preso parte agli incontri, tra cui Gianni e Umberto Agnelli che hanno fatto parte anche del Comitato direttivo del Club, Enrico Letta, Emma Bonino, Mario Monti, Romano Prodi, Ignazio Visco, Matteo Renzi e, tra i giornalisti, Lilli Gruber, Monica Maggioni, Stefano Feltri, solo per citarne alcuni.

La Commissione Trilaterale, invece, è stata fondata nel 1973, oltre che da Rockefeller e da Kissinger, anche da Brzenzinski, con l’obiettivo di avvicinare alla sfera euro-atlantica il Giappone: l’intento dell’organizzazione, infatti, sarebbe quello di integrare le tre aree del mondo che ne costituiscono i membri, vale a dire Nordamerica, Europa e Asia/Oecania.

Secondo alcuni osservatori, tuttavia, la reale finalità della Trilateral, così come delle altre organizzazioni dello stesso tipo, sarebbe quella di promuovere una “governance globale” trainata dagli Stati Uniti e fondata sul potere della rete finanziaria internazionale, sull’egemonia del dollaro e sulla forza militare della NATO, esercitando una forte pressione politica sui governi e sulle nazioni in vista di questo scopo. Tutti i membri dei principali think tank ricoprono inoltre gli incarichi più importanti ai vertici delle istituzioni internazionali, secondo il cosiddetto sistema delle porte girevoli, per cui le stesse personalità ricoprono in modo continuativo diversi incarichi in varie istituzioni pubbliche e private, non di rado con un palese conflitto d’interesse. La Trilaterale, inoltre, commissionò uno studio dal titolo La crisi della democrazia, in cui, in sintesi, si denunciava un eccesso di democrazia che minacciava la governance dell’apparato tecno-finanziario capitalista. Nel corso del testo, infatti, si legge esplicitamente che “oggi, una minaccia rilevante proviene dagli intellettuali e gruppi collegati che asseriscono la loro avversione […] alla subordinazione del sistema di governo democratico al capitalismo monopolistico”. Per questo, lo studioso Noam Chomsky citò lo studio come esempio delle politiche reazionarie e oligarchiche, sviluppate dal
“vento liberista delle élite dello stato capitalista”.

Dalla democrazia alla tecnocrazia capitalista

Con l’avvento dei think tank, alla democrazia, dove centrale è il concetto di demos – popolo – si è sostituita la tecnocrazia, ossia il governo dei tecnici: quest’ultimi, infatti, non si limitano più semplicemente ad affiancare e a consigliare la politica, ma pretendono direttamente di sostituirsi ad essa, sebbene in modo spesso dissimulato. Viene meno, dunque, la divisione tra la politica come regno dei fini e la tecnica come regno dei mezzi, poiché la tecnica diventa un fine in sé, col conseguente annientamento della politica, per cui al bene comune si sostituisce l’interesse di pochi. Per questo i think tank, piuttosto che altri gruppi di pressione, risultano incompatibili con la democrazia, in quanto il governo dell’élite plutocratica è destinato a scontrarsi con quello utopico della maggioranza, con la netta sconfitta di quest’ultima. Non a caso, a riguardo, uno degli uomini più ricchi del mondo – Warren Buffet – dichiarò esplicitamente che «è in corso una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca, che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo».

La democrazia viene scardinata così dai metodi e dalle logiche proprie del capitalismo: la concezione scientifica ed empirica della realtà si traduce nella gestione manageriale – e quindi tecnica – della politica, mantenendo al contempo le apparenze esterne dei procedimenti democratici. Il successo dei sistemi liberali, infatti, non può prescindere dalla costruzione del consenso, evitando ogni tipo di coercizione e plasmando piuttosto, attraverso la persuasione e la comunicazione, un pensiero standardizzato e acritico incapace di individuare, dietro la facciata democratica, l’influenza totalitaria del capitalismo tecnocratico.

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