Da tempo ormai la politica è stata estromessa dalla gestione della cosa pubblica e sostituita dai cosiddetti esperti o tecnici, giustificando sempre tale decisione con la necessità di superare le situazioni di emergenza e sostenendo la presunta neutralità e competenza dei membri degli esecutivi tecnici.

Poiché le crisi economiche, e dunque le emergenze, sono connaturate e cicliche all’interno della struttura capitalista, almeno per come è stata concepita, se ne deduce che la tecnocrazia sia il sistema di governo che meglio le si addice. E ciò è sicuramente vero per quanto riguarda gli interessi delle multinazionali e dei potentati finanziari e bancari; risulta tuttavia assai inadeguata se si considerano gli impatti che essa ha avuto sulla classe media.  Un primo esempio di ciò è rappresentato dalla “prima ondata” di tecnocrazia liberista del governo Monti nel 2011: gli strumenti del consolidamento fiscale e delle riforme strutturali, volti a perseguire quella competitività che è diventata un “valore” fondante della moderna “etica liberale” all’interno di un regime economico mercantilista, hanno infatti impoverito il ceto medio e distrutto la domanda interna, come ha ammesso lo stesso Monti, che per primo ha applicato quegli strumenti che altro non sono che mezzi di impoverimento sociale e di travaso di risorse dal basso verso l’alto.
Uno dei primi risultati raggiunti dal potere tecnocratico, dunque, è stato proprio l’indebolimento di questa fascia sociale, la quale in Italia – secondo uno studio del Sole 24 ore, basato su dati OCSE – nel decennio 2008-2018, ha perso oltre il 10% del reddito[1]. Lo stesso potere è stato poi determinante nel recepire tutte quelle normative europee e quegli accordi comunitari, quali il “fiscal compact”, che inasprendo l’austerità fiscale, hanno ulteriormente drenato risorse dall’economia reale e indebolito la spina dorsale del sistema produttivo italiano, basato sulle piccole e micro imprese.
È evidente come i provvedimenti attutati non abbiano nulla di “tecnico” né di neutrale, ma rappresentino una vera e propria ideologia di natura politico-economica, in cui vengono soppressi i servizi di assistenza sociale e a sopravvivere è solo il più forte, secondo un modello neo malthusiano che nessun partito potrebbe attuare, perché gli obiettivi della politica sono – o dovrebbero essere – diametralmente opposti a quelli di una tecnocrazia che incarna le istanze del capitalismo finanziario e del mercatismo.
I “competenti” rappresentano una precisa categoria di interessi che pressoché mai corrisponde a quella della comunità nel suo complesso, come si evince chiaramente analizzando la formazione e i curricula della maggioranza di essi.
A conferma di ciò e nel solco di queste considerazioni, si inserisce la recente iniziativa del governo di costituire una task force di esperti che possa guidare la ripresa economica, con a capo il manager di una multinazionale,  Vittorio Colao, il cui curriculum non lascia adito a dubbi: formazione economica liberista, conseguita nelle più “prestigiose” università di stampo globalista e mercatista, già amministratore delegato di Vodafone e sostenitore delle politiche di privatizzazione e quindi di svendita del patrimonio pubblico, Colao si inserisce a pieno titolo in quel sostrato dottrinale che ha fatto del profitto, dell’accumulo illimitato di capitali, della competitività, delle riforme strutturali e della riduzione del tutto a bene di consumo, le uniche aspirazioni e gli unici elementi in grado di orientare le scelte degli stati e dei conglomerati geopolitici contemporanei. Questi “principi”, i soli creatori di senso in un mondo dominato dal denaro e dalla tecnica, hanno sottomesso la politica e in essi si sedimenta l’essenza stessa della tecnocrazia capitalista. Essa pretende di applicare all’ambito politico-sociale i metodi e gli strumenti propri della scienza e della gestione aziendale, escludendo tutto ciò che riguarda la qualità e i giudizi di valore, in quanto non calcolabili né programmabili. Per questo, si configura come l’apice di quella tradizione positivista che ha amputato la realtà della sua dimensione trascendentale e qualitativa. In questo contesto, l’etica viene soppiantata in nome di una razionalità totalizzante, orientata unicamente alla realizzazione di obiettivi particolari, non sovrapponibili, ma anzi opposti a quelli della comunità.
La tecnocrazia è per sua stessa natura totalitaria, in quanto pretende non tanto di affiancare la politica, ma di sostituirsi ad essa; così come pretende di dominare su ogni ambito dell’esistenza. Da qui deriva anche quel controllo sulla fisicità degli individui – che va sotto il nome di biopolitica – che pare si appresterà a diventare la norma nel prossimo futuro.

Non a caso, uno dei primi compiti della suddetta “task force” pare sarà proprio quello di decidere in merito alle libertà fondamentali dei cittadini dopo la “quarantena”, le modalità di lavoro e gli strumenti di monitoraggio da adottare. Ci sono dunque almeno due domande da porsi: che cosa ha a che fare tutto questo con la ripresa economica, dato che per quest’ultima l’unica cosa che conta è una massiccia iniezione di liquidità a fondo perduto nell’economia reale (cosa di cui non si è vista traccia), e, soprattutto, qual è la funzione della politica, dal momento in cui tutte le decisioni fondamentali e le scelte che determineranno il corso della storia e il futuro della Nazione sono prese dagli esponenti di una plutocrazia finanziaria che non rappresenta il popolo né una visione culturale compatibile con i valori e la storia della civiltà europea, ma solo lo strapotere di una fitta rete di interessi che trova nel mondo massonico-finanziario la sua radice e il suo nucleo vitale. Ebbene, la funzione della politica, da sempre, dovrebbe essere quella di perseguire il “bene comune”, attraverso la migliore forma di governo possibile, che la Costituzione italiana ha individuato nella democrazia, la cui condizione imprescindibile è la rappresentanza e la partecipazione attiva dei cittadini nell’amministrazione della “res publica”. Ma ciò, di per sé, non sarebbe sufficiente a raggiungere il bene comune se la forma di governo scelta non possedesse anche e soprattutto una visione d’insieme identitaria e culturale di lungo periodo, in grado di armonizzare e indirizzare le scelte particolari socio-economiche. E questo è esattamente ciò che manca strutturalmente alla tecnocrazia, che per sua natura è meccanica e dedita esclusivamente all’esecuzione dei diktat di quello che si può considerare un “impianto globale” al cui vertice ci sono solo i principi dell’efficienza, della quantità, del calcolo e della competitività. Per questa ragione, nel nuovo paradigma decisionale di riferimento, rappresentato dalla “task force”, tutto è compartimentato e indirizzato non al bene collettivo, ma alla realizzazione di un progetto elitario, la cui attuazione non sarebbe stata possibile senza la logica dell’accumulo e della speculazione. Non è un caso allora che a gestire questo processo siano i rappresentanti di spicco di quella stessa logica: imprenditori di grandi multinazionali, miliardari “filantropi” e grandi case farmaceutiche che a loro volta finanziano gli organismi sovranazionali e piegano la “scienza” ai loro obiettivi.
Per arrivare a questo, in Italia la politica è stata da decenni smantellata e screditata – a partire dalla distruzione della Prima Repubblica attraverso il golpe giudiziario di Mani pulite – attribuendo ad essa i caratteri intrinseci della corruzione e dell’incompetenza e generando quindi un sentimento antipolitico che ha allontanato i cittadini da tutto ciò che riguarda l’amministrazione dello Stato, decretandone di fatto la morte. Tuttavia, l’elemento determinante che ha segnato la fine della politica è da rintracciare in quell’individualismo su cui si basa tutta la concezione liberale, la quale, attraverso la volontà di “liberare” l’uomo da quelli che sono considerati vincoli oppressivi – la famiglia, la spiritualità e naturalmente lo Stato – lo ha ridotto ad uno dei tanti pezzi anonimi di quell’ingranaggio produttivo e stritolante propugnato dall’impalcatura moderna del profitto. In questa prospettiva meccanicista, lo Stato – e quindi la politica – non è più un “tutto” in cui le parti trovano senso e significato, realizzando un modello sociale condiviso che si fonda su un’idea qualitativa dell’esistenza, ma è qualcosa da ridimensionare il più possibile, in nome della libertà del singolo; anche se sarebbe più corretto dire in nome della libertà del mercato e dei capitali. Il liberalismo, infatti, ha preteso di “liberare” gli individui dalle loro dimensioni naturali, salvo poi renderli succubi della pura materialità prima, e della tecnoscienza, dopo. Da questa illusoria “liberazione” e dal primato del singolo sulla comunità deriva dunque la marginalità del concetto di Stato: ciò che conta, infatti, è unicamente l’esaltazione, il successo e la ricchezza individuale e la società è solo la risultante di singoli pezzi disgregati, dediti ai culti contemporanei dell’apparenza e del progresso, ora riconvertiti in un “senso civico” moralistico e ottuso che si rifiuta di percepire il completo smantellamento del normale processo democratico e delle libertà fondamentali, che nessuna emergenza – per quanto grave – può sopprimere e cancellare.
Pertanto, è necessario demolire quell’idea fittizia e ingannevole secondo la quale per superare le emergenze occorrono i tecnici – che è l’espediente attraverso cui erodere la democrazia – e riappropriarsi della politica per non soccombere all’impianto intrinsecamente totalitario della tecnocrazia, della tecnoscienza e della biopolitica e per ripristinare la qualità sulla pura materialità.
Solo una dimensione etica e qualitativa infatti può garantire la libertà autentica ai popoli, scalzando quella libertà fittizia che è la stessa che sta conducendo a legittimare un modello di vita basato sul controllo permanente, grazie ad un conformismo comportamentale e di pensiero che non è mai in grado di mettere in discussione un paradigma fallace, che da decenni sta colonizzando la cultura e il pensiero occidentale e che ha raggiunto ora il suo apice proprio col globalismo tecnocratico.


[1] https://www.ilsole24ore.com/art/la-classe-media-italiana-paga-conto-crisi-perso-10percento-reddito-ABaOYwtB

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