Una delle caratteristiche principali della struttura politica ed economica europea è rappresentata dalla totale estromissione dello Stato dalle politiche monetarie e dall’imposizione di regole rigide per le politiche fiscali. Imposizione mascherata con formule che tendono a manipolare l’opinione pubblica, la quale in nome di un (presunto) bene superiore viene persuasa dell’utilità ad intraprendere determinate misure e a cedere la sovranità nazionale.

Espressioni quali “ce lo chiede l’Europa”, o “rassicurare i mercati”, oltre ad individuare in tali realtà degli enti superiori a sé stanti che rappresentano un vincolo di obbedienza ineludibile, hanno proprio tale finalità. Se consideriamo che il primo articolo della nostra Costituzione è dedicato al tema della sovranità, la quale non appartiene né all’Europa e né ai mercati, ma al popolo, capiamo come tali “ritornelli”, oltre ad essere antidemocratici, sono anche anticostituzionali. E’ necessario comunque sottolineare che tali cessioni di potere sono cominciate già a partire dagli anni Ottanta e si sono accompagnate ad una progressiva affermazione delle politiche liberiste, le quali trovano nel principio delle privatizzazioni e nella conseguente spoliticizzazione dell’economico la loro compiuta realizzazione.

Una volta constatato come la storia economica recente sia costellata da importanti rinunce decisionali e di controllo, sarà più interessante capire come, perchè  e verso chi sono stati indirizzati tali trasferimenti di potere.

Per semplificare il percorso storico-economico che ha condotto l’Italia alla condizione di subalternità ai mercati e al primato della finanza sulla politica, è possibile individuare almeno quattro macro-eventi, il primo dei quali risale al 1981 col divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia, voluto dall’allora governatore della banca centrale Carlo Azeglio Ciampi e dal Ministro del Tesoro Beniamino Andreatta. Questo fu il primo passo volto a sottrarre una parte importante delle decisioni in materia di politica monetaria dal controllo dello Stato, affidandola al potere di banche presto divenute private. In particolare, con questo atto unilaterale la banca centrale italiana non era più tenuta ad acquistare i titoli di Stato rimasti invenduti sul mercato primario, lasciando quindi il Tesoro “preda” degli attacchi speculativi finanziari a causa degli alti tassi d’interesse che si trovava a dover pagare agli operatori istituzionali, non essendoci garanzia di rimborso. Inutile dire che da quel momento in avanti il debito pubblico italiano aumentò in maniera esponenziale, non come viene raccontato dai media “ufficiali” a causa degli sprechi dell’amministrazione pubblica, ma a causa degli enormi interessi passivi pagati sulla vendita dei titoli.[1] Questo famoso e sciagurato divorzio rappresenta il primo e decisivo momento in cui la finanza internazionale cominciò a mettere le mani sul debito pubblico italiano e, oltre che ad arricchirsi su di esso, ad averne il controllo.  Il successivo provvedimento che consolidò l’estromissione dello Stato dalle politiche monetarie avvenne negli anni Novanta, precisamente nel 1992, quando Mario Draghi, allora Direttore generale del Tesoro, privatizzò tutti i principali asset strategici del paese, compresi gli istituti di credito.[2] La motivazione principale addotta al fine di giustificare tale decisione fu quella di abbassare, tramite gli incassi derivanti dalla (s)vendita di tali beni, il debito pubblico (la cui ascensione fu inarrestabile a causa del divorzio), per poter entrare a far parte del “club europeo” e in particolar modo della moneta unica. In realtà, ancora una volta tale decisione sottendeva la volontà di spoliticizzare l’economico a favore del grande capitale, tanto più che attraverso una legge varata da Guido Carli veniva attribuita la facoltà esclusiva alla Banca d’Italia di variare il tasso ufficiale di sconto, senza accordo con il Ministero del Tesoro. Una volta privatizzate le banche, la Banca d’Italia, pur restando un istituto di diritto pubblico dal punto di vista giuridico, si venne a configurare de facto come ente privato, essendo controllata in massima parte da quegli stessi istituti bancari che si era provveduto a privatizzare. Ancora più interessante è notare chi ha maggiormente beneficiato della svendita del nostro patrimonio pubblico: oltre alle multinazionali angloamericane e ad alcuni giganti nazionali come Benetton, che si aggiudicò per 470 miliardi GS Autogrill, rivendendola poi ai francesi di Carrefour GS a dieci volte tanto, chi davvero guadagnò su tali vendite furono le grandi banche d’affari americane: Goldman Sachs, JP Morgan, Morgan Stanley, Credit Suisse, First Boston e Merrill Lynch. A queste, infatti, è andato circa l’uno per cento dei costi delle commissioni per i collocatori di borsa e delle spese di registrazione sui mercati azionari; il tutto senza una gara pubblica per l’affidamento dell’incarico e senza rischiare nemmeno un dollaro. Non dovrebbe stupire dunque che nel 2002, Draghi, dopo aver fatto ampiamente gli interessi della banca d’affari americana più potente del mondo (la Goldman Sachs), ne divenne vicepresidente.

Se con questi primi due atti, che rappresentano il tradimento dei nostri politici ai danni della Nazione, si sono poste le premesse per incatenare l’economia italiana ai mercati e alla finanza internazionale, i successivi due (Maastricht e la moneta unica) rappresentano il perfezionamento di tale progetto. Inoltre, se la politica monetaria era già stata in buona parte sottratta al controllo statale, con Maastricht (che risale allo stesso periodo delle privatizzazioni bancarie) si limita fortemente anche quella fiscale: le regole di un deficit non superiore al tre percento e di contenimento del debito pubblico entro il sessanta percento del PIL, infatti, lasciano scarsi margini di manovra ai governi sulla possibilità di immettere liquidità nell’economia reale, tanto più che tale liquidità d’ora innanzi sono costretti a prenderla in prestito dalle banche (private) e dai mercati, in un circolo vizioso che rende il debito pubblico inestinguibile. E’ anche necessario sottolineare come tali parametri non solo non hanno alcun fondamento scientifico, ma sono funzionali alla logica del liberismo, che prevede che l’intervento dello stato nell’economia sia ridotto al minimo. Da tutto ciò possiamo dedurre come questo tipo di impalcatura europea sia stata pianificata in modo calcolato e in largo anticipo affinché potesse essere il campo di sfruttamento della finanza. I mercati finanziari e le grandi banche, infatti, possono speculare senza regolamentazione alcuna sui debiti sovrani, non solo scegliendo il tasso di interesse degli strumenti finanziari (come il Btp), ma giudicando arbitrariamente l’affidabilità creditizia delle nazioni, manifestando così in modo incontrovertibile la loro supremazia sulla politica.

Infine, con l’introduzione della moneta unica, la sovranità monetaria viene ceduta definitivamente ad un organismo privato sovranazionale che corrisponde alla BCE: privato perchè appartiene alle banche centrali nazionali degli stati membri, a loro volta controllate da istituti di credito privati, che in quanto tali perseguono interessi privati, che raramente coincidono con quelli dei cittadini e dell’economia reale. La BCE si è riservata il diritto esclusivo di emettere banconote e, in base all’articolo 123 del TFUE, non può acquistare direttamente titoli di Stato sul mercato primario né su quello secondario (in quest’ultimo caso solo ed esclusivamente se gli Stati accettano un programma denominato OMT, cioè Outright Monetary Transaction, in base al quale si devono sottoporre ad un piano di austerità). L’articolo recita: Sono vietati la concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia, da parte della Banca centrale europea o da parte delle banche centrali degli Stati membri (in appresso denominate “banche centrali nazionali”), a istituzioni, organi od organismi dell’Unione, alle amministrazioni statali, agli enti regionali, locali o altri enti pubblici, ad altri organismi di diritto pubblico o a imprese pubbliche degli Stati membri, così come l’acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte della Banca centrale europea o delle banche centrali nazionali. Forse non tutti conoscono la trappola che si nasconde dietro tale normativa: la Banca centrale europea versa liquidità nelle banche ad un costo del denaro irrisorio o addirittura nullo (nel 2018, la BCE ha lasciato i tassi di interesse sul rifinanziamento principale fermi allo zero), dopo di che le stesse banche comprano i titoli di Stato sul mercato primario ad un tasso che può arrivare fino al doppio o al triplo di quello iniziale “concesso” loro dalla Banca centrale. Tutto ciò comporta dei costi aggiuntivi enormi sul finanziamento del debito, che non ci sarebbero se venisse saltato il passaggio intermedio delle banche private, o se venisse istituita una banca pubblica. Infatti, il secondo comma del medesimo art 123 specifica: Le disposizioni del paragrafo uno non si applicano agli enti creditizi di proprietà pubblica che, nel contesto dell’offerta di liquidità da parte delle banche centrali, devono ricevere dalle banche centrali nazionali e dalla Banca centrale europea lo stesso trattamento degli enti creditizi privati“.

Considerato che non disponiamo di nessuna banca interamente pubblica, e chiarite le ragioni per cui è assolutamente necessario dotarsene quanto prima, dovrebbe essere semplice notare come la sovranità monetaria sia stata trasferita, attraverso una serie di passaggi, dai governi, che in quanto eletti rappresentano i cittadini, ad enti bancari e finanziari privati che rappresentano nessuno (se non se stessi) e che attualmente detengono circa il trentadue percento della quota complessiva del nostro debito, pari a 736,5 miliardi di euro, e che hanno il loro nucleo centrale oltreoceano nelle grandi investement bank americane. Queste sono in grado di piegare i governi non allineati alle politiche liberiste, le quali hanno come obiettivo la realizzazione degli interessi delle grandi società di capitali, la libera circolazione delle merci e della forza lavoro. Se pensiamo che il capitale finanziario oggi è in grado di destituire governi democraticamente eletti (come è successo nel 2011 col governo Berlusconi) e far fallire gli Stati perchè controlla le leve determinanti del potere economico, capiamo come il residuo concetto di democrazia che ci hanno fatto credere di possedere sia in realtà marginale e non determinante. L’annichilimento dello spazio di controllo politico e la contemporanea usurpazione di potere da parte dei capitali sta conducendo ad un nuovo ordine finanziario globale, che mira a costituire una dimensione in cui non esistono più nazioni e popoli, ma solo mercati e consumatori, dove le nazioni dovranno cedere sempre più sovranità, dove i confini dovranno essere spazzati via per realizzare in modo uniforme la globalizzazione di uomini, merci e culture e dove anche la sfera spirituale e culturale verrà spogliata della sua forza vitale, per lasciare spazio a soggetti che, privati di punti di riferimento essenziali, di valori e di una forte identità, diventeranno sempre più plasmabili e asserviti ai desiderata di una élite finanziaria mondiale.

Chi controlla la base monetaria di un sistema economico controlla pressoché tutto e in questo contesto si determina la battaglia per la libertà. E’ giunto dunque il momento in cui gli stati decidano di riappropriarsi di questa fondamentale e legittima facoltà, la quale per essere democratica non può appartenere alle banche private, ma ai cittadini. Prima di ciò è comunque imprescindibile che l’opinione pubblica prenda coscienza della complessa realtà dei fatti, affinchè possa completamente sovvertirla, rimettendo l’equità e la giustizia al centro di un eterno equilibrio universale.


[1] La spesa per interessi raddoppia negli anni 1981-1984, passando dal 4 all’8% del PIL. Tra il 1980 e il 2018, invece, l’Italia ha pagato 3.872  miliardi di euro di interessi, pari al 219% del PIL.

[2] Il Tesoro ha effettuato operazioni di privatizzazione per un valore di 66,6 miliardi di euro, a cui vanno aggiunte le privatizzazioni gestite dall’IRI (56,4 miliardi di euro), le dismissioni realizzate dall’Eni (5,4 miliardi di euro) e la liquidazione dell’EFIM (440 milioni di euro).

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