Non si esagera se si afferma che i mezzi di comunicazione di massa rappresentano oggi i nuovi oracoli della contemporaneità. La loro veridicità e la loro affidabilità è raramente messa in discussione perché essi sono assurti al ruolo di guida e rappresentano ormai una delle poche autorità rimaste.

Qualunque cosa dica la televisione o il giornale non può non essere vera. In quanto ad autorità, essi sembrano aver colmato il vuoto che si è creato, viceversa, dallo svuotamento di potere che hanno subito le istituzioni tradizionali quali ad esempio la famiglia e la scuola. C’è stato un trasferimento di credibilità che ha trovato il suo enorme vantaggio nel potere della manipolazione e grazie al quale i media sono giunti a rappresentare la verità indiscussa. Una “verità” desacralizzata, che non richiede alcun percorso spirituale o intellettuale per essere raggiunta, ma anzi viene servita quotidianamente su un “piatto d’argento” senza che sia minimamente richiesta. Buon senso vorrebbe che ci si interrogasse sui detentori di tali presunte verità particolari e sull’interesse che hanno nel diffonderle, ma nell’era dell’apparenza e del consumo, il pensiero è stato declassato da strumento per comprendere la complessità del reale ad ingombrante ostacolo da eliminare, attraverso i tanti mezzi di distrazione che colpiscono specialmente le giovani generazioni. Ne consegue che nessuno o quasi si domanda da chi sono controllati e finanziati i canali attraverso cui “ci informiamo”. Diversamente, sarebbe noto ai più che essi sono a tutti gli effetti il braccio destro del potere, un potere tanto occulto quanto autoreferenziale e antidemocratico, che si trincera nella segretezza di incontri privati, ai quali partecipano ovviamente anche i direttori e i principali esponenti dell’apparato mediatico. Ciò spiega il bombardamento propagandistico quotidiano su temi quali immigrazione, UE, euro e atlantismo, che sono infatti i principali mezzi di controllo della classe dominante, a cui hanno preparato il terreno fior di intellettuali, più o meno consapevolmente al servizio dell’establishment. 

Del ruolo degli intellettuali, dei mezzi di comunicazione di massa e, soprattutto, della governabilità delle democrazie si è occupata ampiamente la Commissione Trilaterale[1] in un rapporto dal titolo “La crisi della democrazia” del 1975. Ciò che gli autori intendono con l’espressione “crisi della democrazia”, come viene spiegato nel corso del testo, è fondamentalmente un suo eccesso dovuto al sovraccarico delle esigenze popolari. In particolare, viene esplicitato che:

I sistemi politici europei sono sovraccarichi di partecipanti e di richieste e incontrano sempre maggiore difficoltà nel dominare la complessità […]“.[2]

Tutto ciò determina un problema di fondo nella “governabilità” delle società democratiche. Il termine governabilità, o “governance”, segna l’inizio di un modo nuovo di concepire e di gestire la politica, che sfocerà in quella visione “mercatista” e tecnocratica che si imporrà prepotentemente, per mezzo della globalizzazione, su tutti i modelli politici e sociali occidentali. Il concetto tipicamente anglosassone di governance economica, che si basa sui pilastri del profitto e della preminenza assoluta delle procedure di mercato, viene esteso anche all’ambito socio-politico, adattando quindi i parametri intrinseci dell’economia e dell’industria alla gestione dello Stato. E’ chiaro dunque come, in tal modo, le nazioni vengano assimilate a imprese e il mondo ad un unico grande mercato. Per poter realizzare questo modello di governabilità, è tuttavia essenziale tenere presente quelle che vengono definite le “minacce” a cui è esposto lo stato democratico, tra cui, oltre al sovraccarico dei sistemi decisionali, è preponderante, sul piano sociale, il ruolo degli intellettuali (o almeno una parte di essi) e dei mezzi di comunicazione di massa che tendono ad autoregolarsi. Si legge, infatti, quanto segue:

Oggi, una minaccia rilevante proviene dagli intellettuali e gruppi collegati che asseriscono la loro avversione alla corruzione, al materialismo e all’inefficienza della democrazia, nonché alla subordinazione del sistema di governo democratico al “capitalismo monopolistico” “.[3]

E’ evidente che “il sistema di governo democratico” cui si fa riferimento è quello liberale, in cui tutto è deregolamentato e lo Stato non deve solamente ridimensionare le sue funzioni e i suoi poteri, ma deve adoperarsi affinchè il capitale sia nelle condizioni migliori per poter esercitare la sua egemonia, attraverso il libero mercato, i movimenti di capitali e le delocalizzazioni.

L’analisi prosegue asserendo che:

In una certa misura, le società industriali avanzate hanno dato origine a uno strato di intellettuali orientati dai valori, i quali spesso si votano a screditare la leadership, a sfidare l’autorità e a smascherare e negare legittimità ai poteri costituiti, mettendo in atto un comportamento che contrasta con quello del novero pure crescente di intellettuali tecnocratici e orientati alla politica“.[4]

Le democrazie diventano ingovernabili nel momento in cui minacciano la “governance”, nel momento in cui mettono in dubbio, o meglio contestano, la subordinazione dei valori al materialismo, che si traduce, nel paradigma del nuovo autoritarismo plutocratico, nel dissenso e l’insubordinazione verso le strutture chiave del capitalismo finanziario che hanno sottomesso la politica, adattando le regole e i principi del mercato allo stato di diritto e trasformando le società in una massa di individui disgregati “governati” dai tecnocrati. E’ evidente infatti che se oramai le nazioni si amministrano e sono trattate alla stregua di aziende o multinazionali, le figure del politico e dello statista non possono che scomparire, cedendo il posto a quella dei tecnici, chiamati anche “competenti”. E’ da questo sostrato che ha origine la figura del tecnico, che corrisponde, in ambito culturale, all’altra categoria di intellettuali, non a caso denominati “intellettuali tecnocratici”, il cui ruolo è quello di essere al servizio dell’oligarchia finanziaria che ha fatto della globalizzazione e del liberismo i suoi principali strumenti di dominio.

In un’impalcatura di questo tipo non è possibile fare a meno della potenza che hanno i media nel veicolare messaggi che possono, a seconda dei casi, legittimare o screditare le fonti del potere, pena il crollo dell’impalcatura stessa, che si regge sui poteri bancari e finanziari ma soprattutto sulle grandi strutture sopranazionali e intergovernative istituite all’indomani della Seconda guerra mondiale. Tutto questo sistema non può trascurare il potere persuasivo dei mezzi di comunicazione di massa che, se indipendenti, possono costituire una seria minaccia all’ordine costituito.

Così, infatti, si esprime il rapporto della Commissione Trilaterale a riguardo:

“[…] La loro influenza sulla politica e sulla governabilità è molto più diretta di quella dell’istruzione; […] I giornalisti hanno la funzione decisiva di custodi di una delle dimensioni fondamentali della vita pubblica. I media sono così diventati una forza autonoma. […] Ma stiamo assistendo a un mutamento decisivo nel momento in cui la professione tende ad autoregolarsi in modo da resistere alla pressione degli interessi finanziari o governativi“.[5]

Per risolvere la “crisi della democrazia”, ossia il fatto che il demos pretenda una partecipazione attiva alle decisioni della vita pubblica, non si può prescindere dai media come strumenti di costruzione del consenso. Proprio a tal fine sono state elaborate, ben prima del rapporto redatto dai membri della Trilaterale, delle vere e proprie tecniche per alterare la percezione dei fatti, che consistono in una sistematica mistificazione della realtà, nella creazione di slogan, nella rigida selezione delle notizie da diffondere e nell’inculcare agli spettatori passivi gli pseudo valori funzionali alla classe dominante che controlla i mezzi di comunicazione.

Di tutto ciò si occupa quella che è definita l’industria delle pubbliche relazioni, nata negli Stati Uniti negli anni Venti del Novecento e il cui maggiore esponente è considerato Edward Bernays, nipote di Sigmund Freud e primo “spin doctor” della storia. Bernays aveva fatto parte del Comitato Creel, uno dei primi esperimenti propagandistici in senso moderno messo in atto dall’amministrazione Wilson al fine di “convertire” la popolazione americana, pacifista, alla necessità di prendere parte alla Prima guerra mondiale.

Per convincere la popolazione americana di tale necessità, furono divulgate menzogne e fu alterata la storia. Come riporta il filosofo e linguista americano Noam Chomsky:

Furono divulgate terribili storie sulle atrocità commesse dai tedeschi, cronache di bambini belgi con le braccia strappate e altri orrori di ogni sorta, che si trovano ancora nei libri di storia. Molte di queste invenzioni erano frutto del ministero della Propaganda britannico, il cui impegno a quel tempo era finalizzato, come venne precisato nelle deliberazioni segrete, a “indirizzare il pensiero della maggioranza del mondo“”.[6]

Furono altresì diffusi migliaia di comunicati stampa e milioni di poster, tra cui il più famoso è quello dello zio Sam (la personificazione degli Stati Uniti) a caccia di reclute, con la scritta: “I want you for US army“.

 Bernays assimilò a tal punto le nozioni e i metodi impiegati dal Comitato Creel, da elaborare successivamente un proprio personale metodo, noto come ‘”ingegneria del consenso”, per modellare il pensiero collettivo. Nel suo saggio dall’omonimo titolo, infatti, spiega che:

«Se capisci i meccanismi e le logiche che regolano il comportamento di un gruppo, puoi controllare e irreggimentare le masse a tuo piacimento e a loro insaputa».[7]

Le tecniche elaborate da Bernays erano strettamente collegate alle scoperte psicologiche dell’inconscio dello zio Freud: osservando il comportamento sociale degli individui, infatti, egli riuscì ad associare un prodotto ad una determinata idea, diffusa e condivisa dai più, suscitando in tal modo l’emozione irrazionale e inconscia delle masse o di una determinata categoria di persone. Risultò possibile in questo modo guidare e orientare i comportamenti sociali.

Tuttora gli spin doctor, ossia i professionisti della comunicazione che affiancano politici e istituzioni, adottano questi metodi e sono coadiuvati da gruppi di psicologi o sono essi stessi esperti delle dinamiche dell’inconscio.

A questo meccanismo di manipolazione si è aggiunta la più recente condizione di monopolio del settore mediatico. Il fenomeno della globalizzazione, infatti, strettamente legato al capitalismo finanziario e all’affermarsi di strutture sopranazionali sempre più potenti (come l’Organizzazione mondiale del commercio, OMC), in grado di esautorare gli Stati, ha comportato la concentrazione di potere nelle mani di una ristretta manciata di gruppi economici, per lo più banche e multinazionali. È in questo contesto che si è prodotta una metamorfosi determinante nell’ambito dei mass-media, in quanto le compagnie cui appartengono, attraverso fusioni e acquisizioni, si sono espanse sempre di più fino a diventare dei colossi e a detenere una percentuale altissima di tutti i principali mezzi di comunicazione (stampa, radio, televisione e cinema). Il numero di aziende che detiene la maggioranza dei media negli Stati Uniti, è sceso da cinquanta a cinque nel giro di un ventennio e le principali corporation americane in questo settore costituiscono il gruppo noto come “Big five”. Esse sono: Warner Media, la News Corporation (o Gruppo Murdoch), The Walt Disney Company, la ViacomCBS e la Comcast Corporation. Questi colossi controllano, oltre ai principali mezzi di comunicazione, alcune delle più grandi compagnie multinazionali del mondo. Il loro obiettivo è la creazione del pensiero standardizzato perché nella società liberale “democratica”, la propaganda è il mezzo per ottenere ciò che nello stato totalitario si ottiene con la forza. Per questo si può dire che questo tipo di società sia sottoposta ad una forma di “dittatura dolce” e invisibile.

La WarnerMedia è nata a seguito della scissione della Aol Time Warner, la più grande tra le Big five. Questa a sua volta è nata nel 2000 da una delle più grandi fusioni della storia capitalistica. La fusione ha coinvolto il colosso dei media “Time Warner” e il leader Internet “America on Line” (AoL), in quella che è stata definita da Wall Street una “perfetta sinergia”. La Aol Time Warner possedeva una lista di società controllate lunga una decina di pagine:

Tra queste si annoverano: 3Com, eBay, Hewlett-Packard, Citigroup, Ticketmaster, American Express, Homestore, Sony, Viva, Bertelsmann, Polygram e Amazon.com”.[8]

A seguito del drastico calo di valore della AoL, con una perdita di 99 miliardi di dollari nel 2002, la società, nel 2003, riprende il vecchio nome Time Warner e a seguito di una nuova fusione, completata dopo un processo antitrust vinto contro l’amministrazione Trump, viene ridenominata Warner Media. Essa possiede, tra gli altri, HBO, CNN, Cartoon Network, Warner Bros, Cinemax.

Al secondo posto tra i giganti della comunicazione si posiziona la News Corporation di Rupert Murdoch. Il magnate australiano dei media, noto per le sue posizioni sioniste e di appoggio all’imperialismo americano, nonchè proprietario, fino al 2018, di Sky Italia, “ha avuto un ruolo mondiale importante nell’orientare l’opinione pubblica a favore della guerra in Iraq e a favore di Israele. È uno strumento importante nella cosiddetta “guerra al terrore” di USA e Israele, o meglio di USrael“.[9] Nel 2018, Sky Italia è stata acquisita dal gruppo Comcast.

L’enorme potere di questi colossi mediatici è dovuto all’impressionante accumulo di capitali da essi posseduti e di conseguenza al fatto che sono l’espressione diretta degli interessi dei grandi gruppi industriali e bancari. I principali potentati economici siedono infatti negli stessi consigli di amministrazione dei giganti dell’informazione e dell’intrattenimento e hanno un’enorme influenza sulla politica. I rappresentanti americani sanno bene che sono gli stessi media a costruire i personaggi politici e a decretarne la popolarità o il fallimento, attraverso la loro magistrale abilità di esaltarli o demonizzarli. Proprio per questa ragione, la politica ha spesso un approccio reverenziale e permissivo verso di essi. Ciò si traduce nella sistematica violazione, da parte di questi conglomerati, delle leggi sui monopoli e delle regole che disciplinano i potenziali e molto diffusi conflitti di interesse che caratterizzano il mondo mediatico. Se, infatti, il consiglio di amministrazione, eletto dagli azionisti, indica e ha il dovere di sorvegliare i dirigenti, nella maggior parte dei casi accade che siano questi ultimi a scegliere gli amministratori che si suppone li debbano controllare. Inoltre, molti membri siedono contemporaneamente nel consiglio di amministrazione di più aziende, anche se ciò è vietato per legge.

Il settore dei media si configura dunque come un vero e proprio monopolio, in cui i media non sono solo controllati dai grandi gruppi economici, finanziari e bancari, ma nella loro struttura intrinseca, essi coincidono esattamente con questi ultimi.

Per quanto riguarda la situazione dell’informazione in Italia, analizzando da chi sono detenuti i principali gruppi editoriali che gestiscono i maggiori media nazionali, è possibile notare come anche in questo caso vi sia una predominanza e una commistione tra interessi bancari, finanziari, assicurativi e industriali. Sono questi ultimi, in estrema sintesi, a plasmare l’opinione pubblica e il pensiero della collettività, conformandolo alle esigenze e ai desiderata della grande finanza. Se è vero infatti che il culto della modernità si fonda sulla crescita illimitata e sul profitto, i quali trovano nel mercato unico la loro spinta propulsiva e il mezzo più potente di sviluppo, è altrettanto vero che, affinché attecchisse in modo prorompente in un periodo di tempo limitato, il libero mercato, o meglio la globalizzazione, necessitava di una società che si conformasse ad esso. È nata così l’esigenza di plasmare il pensiero per creare il cittadino globale di un mondo globale unificato dai capitali e dalle multinazionali, che si sono avvalse proprio dei media (ma anche della politica) per modellare l’uomo post-moderno.

Il Corriere della Sera, principale quotidiano nazionale con una tiratura di 322.000 copie al giorno, è gestito da RCS Media Group, il cui principale azionista, nonché presidente e AD, è Urbano Cairo, anche azionista di riferimento di Cairo Communication e proprietario della rete televisiva La7. Tra gli altri azionisti importanti del gruppo figurano Mediobanca (10%), Diego Della Valle (7,6%), Unipol Gruppo S.p.A. (4,8%) e China National Chemical Corporation (4,7%), mentre tra i membri del Consiglio di amministrazione si trovano nomi di spicco non solo dell’industria, della finanza e delle assicurazioni, ma anche dei grandi think tank internazionali. Tra questi si annoverano: Marco Tronchetti Provera, vicepresidente e AD di Pirelli & Co S.p.A., vicepresidente del Consiglio di Amministrazione di Mediobanca, presidente onorario per la parte italiana del Consiglio per le Relazioni fra Italia e Stati uniti, nonché membro del gruppo italiano della Commissione Trilaterale; Carlo Cimbri, Presidente del Consiglio di Amministrazione di UnipolSai Assicurazioni S.p.A.; Gaetano Miccichè, presidente di Banca IMI dall’aprile 2016 e precedentemente Direttore Generale di Intesa San Paolo. Come si può notare è prevalente, se non assoluta, la rappresentanza del mondo bancario e industriale, mentre è completamente assente una parte che possa rappresentare una visione e interessi alternativi a quelli puramente economicisti. Ciò semplicemente non consente di formulare dei modelli politico-economici che si differenzino da quelli dominanti.

La situazione risulta forse ulteriormente compromessa se si analizza l’amministrazione di Gedi Gruppo Editoriale S.p.A., che controlla e gestisce, oltre a “La Repubblica”, secondo quotidiano nazionale per copie diffuse, “La Stampa”, “Il secolo XIX”, “Il Tirreno” e altri quotidiani locali. Possiede inoltre Radio Dee Jay, Radio Capital e Radio m2o, oltre a numerosi periodici, tra cui “L’Espresso” e “National Georaphic”.

Gli azionisti di Gedi sono: Gruppo CIR- Compagnie Industriali Riunite (45,8%) della famiglia De Benedetti ed Exor (43,78%), appartenente al gruppo Giovanni Agnelli BV. L’azionista di controllo di CIR è COFIDE-Gruppo De Benedetti S.p.A., la holding fondata da Carlo De Benedetti e controllata dalla Fratelli De Benedetti S.p.A., che detiene per il 46% il Gruppo CIR. Quest’ultima è attiva nei settori componenti auto (Sogefi), media (Gedi) e sanità (Kos), mentre COFIDE opera anche nel settore finanziario tramite vari fondi di investimento, tra cui “Jargonnant”, fondo di private equity specializzato in attività immobiliari.

La famiglia Agnelli controlla, tramite Exor, anche “The Economist” (con una partecipazione del 43,4%), il settimanale londinese di informazione politico-economica che si definisce come “un prodotto del liberalismo caledoniano di Adam Smith e David Hume”. Non a caso la sua linea editoriale è improntata al sostegno del liberismo economico, che si esplica nel libero mercato e nella globalizzazione, ed è a favore di tutte le principali tematiche progressiste, oltre che dell’imperialismo americano, con il suo esplicito appoggio alle guerre prima in Vietnam e poi in Iraq. Non stupisce dunque che il medesimo taglio editoriale si ritrovi in tutti i quotidiani appartenenti al gruppo in questione, essendo essi gestiti dalle stesse famiglie di spicco della plutocrazia finanziaria. La logica liberale, infatti, è quella che è maggiormente in grado di assecondare le esigenze del grande capitale transnazionale, essendo essa incentrata sulla libertà del mercato che si esplica attraverso la deregolamentazione finanziaria e dei movimenti di capitale, ma anche su un concetto “etico” di libertà che, attraverso una sua distorsione ed estremizzazione, riduce quest’ultima a mero strumento di disgregazione dei valori, in grado non solo di spianare la strada al materialismo assoluto, su cui si regge l’intero assetto capitalista, ma anche di trasformare in merce di consumo ciò che si caratterizza maggiormente per la sua intrinseca natura sacrale e spirituale.

In un articolo del 2004 dello stesso “Economist”, dal titolo “Sex is their business”, si legge: “Tutti devono avere il permesso di vendere e comprare qualsiasi cosa, compreso il proprio corpo”.

Per quanto riguarda il terzo quotidiano italiano per diffusione, nonché la fonte di informazione economica più autorevole a livello nazionale, “Il Sole 24 Ore”, è sufficiente dire che il suo gruppo editoriale, “Gruppo 24 Ore”, ha un capitale sociale ripartito tra Confindustria (61,5%) e gli stessi famigerati e onnipresenti mercati (38%).

Da queste analisi, emerge che non si esagera se si afferma che la stragrande maggioranza dell’informazione è filtrata, selezionata e guidata dagli interessi della grande finanza, che oltre a controllare i media, è padrona della politica.

Una lenta e progressiva presa di coscienza è in atto da parte di molti recettori dei messaggi distorti della comunicazione di massa (nata, del resto, insieme al capitalismo stesso), come mostra il calo di vendite dei principali quotidiani, ma resiste un’importante sacca ideologica, forgiata dai dogmi liberali dell’economicismo, del positivismo e del cosmopolitismo, che identifica l’intero apparato liberal-globalista con la verità indiscussa, unico e incontrastato modello economico e politico.

In un tessuto sociale fortemente laicizzato e prostrato al materialismo solo apparentemente gli “avanguardisti” del relativismo possono vantarsi di aver scalzato la fede nel trascendente, considerata retrograda e nemica delle spinte positiviste preminenti della modernità, perché quella fede è stata semplicemente sostituita e declassata ad un livello più basso, autodistruttivo e capace di offrire unicamente delle “verità” ingannevoli. La “fede” cieca nei mercati, nella Ue, nell’umanitarismo e naturalmente nei mass media la possiamo osservare ogni giorno ed è una fede assunta come postulato inconfutabile. Nessuna domanda deve minare il dolce inganno del progresso e della democrazia, di cui i nuovi oracoli desacralizzati si premurano ogni giorno di tessere le lodi. 


[1] La Trilateral Commission è un influente think tank con sede centrale a New York, fondato nel 1973 da David Rockefeller, allora presidente della Chase Manhattan Bank, il cui scopo ufficiale è promuovere la cooperazione internazionale e l’interdipendenza tra gli stati. In realtà, come si evince dai fatti e come hanno denunciato anche importanti studiosi, la vera finalità è esercitare pressione sui governi, per realizzare quell’egemonia globale già teorizzata e auspicata da altri organismi simili come il CFR.

[2] Crozier M.J – Huntington S. P. -Watanuki J., La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione Trilaterale, Franco Angeli Editore, 1977, pag. 27.

[3] Crozier M.J – Huntington S. P. -Watanuki J., La crisi della democrazia, p.22.

[4] Ibid.

[5] Crozier M.J – Huntington S. P. -Watanuki J., La crisi della democrazia, pp. 48-49.

[6] Chomsky N., Atti di aggressione e di controllo, Marco Tropea Editore, 2000.

[7] E. Bernays, The Engineering of Consent, Annals of the American Academy of Political and Social Science, marzo 1947.

[8] Ben H. Bagdikian, The New Media Monopoly, Boston, Beacon Press, 2004, p.31.

[9] dall’articolo online di M. Manno, “Esiste la lobby ebraica in Italia?”, 2006, https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=4739.

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