A più di un anno e mezzo di distanza dall’imposizione delle prime sanzioni europee e statunitensi alla Russia in seguito all’attacco dell’Ucraina, il panorama economico europeo risulta caratterizzato da una generale tendenza al rallentamento guidata dalla Germania che, fino a poco tempo fa, era considerata il motore economico europeo. In particolare, si notano gli effetti (negativi) della riuscita strategia americana di disaccoppiare le economie europee da quella russa e, soprattutto, di dividere Berlino da Mosca, per sferrare un colpo definitivo alla cosiddetta GeRussia, da sempre incubo di Washington, in quanto una florida cooperazione economica, culturale, politica e di sicurezza tra Mosca e il Vecchio continente sancirebbe la completa inutilità dell’Alleanza atlantica, sottraendo l’Europa dall’orbita americana. Dunque, contro ogni pronostico occidentale, non solo l’economia russa non è fallita, ma mentre alcuni dei principali indici economici tedeschi – e degli altri Stati europei – registrano un calo, quelli russi segnano risultati positivi: si stima che l’economia di Mosca crescerà dell’1,5% nel 2023 a fronte dello 0,8% di quella europea. Inoltre, a mero titolo d’esempio, l’indice PMI manifatturiero della Russia stilato da S&P Global è salito a 54,5 punti a settembre dai 52,7 del mese precedente, indicando il ritmo più veloce del settore da gennaio 2017, mentre quello tedesco è salito a settembre a 39,6 punti, contro i 39,1 di agosto, ma il dato resta inferiore alle stime che erano di 39,8 punti.

La situazione economico-politica tedesca

Berlino ha risentito profondamente della repentina – e almeno a medio termine, irreversibile – interruzione di tutti i rapporti con Mosca, specialmente sul fronte energetico. Le esportazioni tedesche in Russia nel 2021 sono crollate drasticamente, quasi dimezzate: con poco meno di 15 miliardi di euro, sono scese di oltre 12 miliardi (-45%) rispetto al valore del 2021. Nella classifica dei mercati di sbocco tedeschi, la Russia è così precipitata dal 15° al 23° posto nel giro di un anno. «In termini puramente statistici, la guerra ha già fatto arretrare le relazioni economiche tra Germania e Russia di 20 anni, e non si intravede una fine a questo sviluppo negativo», ha spiegato il direttore generale del Comitato per le relazioni economiche con l’Europa orientale (Ost-Ausschuss der Deutschen Wirtschaft), Michael Harms. La perdita di un importante partner commerciale, insieme alle politiche monetarie restrittive della BCE e alla transizione energetica avviata da Berlino, hanno portato la Germania in recessione tecnica: nel primo quarto del 2023, infatti, il PIL tedesco ha segnato il secondo arretramento consecutivo, pari al -0,3%, dopo il -0,5% del quarto trimestre 2022, contagiando l’intera Eurozona che allo stesso modo è entrata in recessione tecnica nel primo trimestre 2023, spinta al ribasso dalla Germania.

Proprio per questo, lo storico tedesco Tarik Cyril Amar, docente presso l’Università di Koç a Istanbul, su Newsweek ha avvertito l’Europa che, più che da Russia e Cina, dovrebbe guardarsi da un pericolo “interno”, ossia la Germania. Berlino ha già sconvolto gli equilibri europei nelle due guerre mondiali e attualmente il suo problema è che «se la vecchia Germania era troppo assertiva, la nuova Germania è troppo sottomessa. E la causa scatenante di tutto ciò è la guerra contro l’Ucraina». Lo storico ha inoltre spiegato che «La Germania moderna è strutturata su un principio semplice: importare materie prime ed energia, aggiungervi manodopera e tecnologia e vendere i prodotti risultanti. Se si toglie dal mix l’energia a prezzi competitivi, il modello crolla. Parlare di “deindustrializzazione” sembrava esagerato un anno fa. Ora è la nuova normalità». Accanto al problema economico tedesco si affianca quello politico, in realtà causa del primo: Berlino ha sacrificato gli interessi vitali tedeschi (e di conseguenza europei) alla strategia atlantista, con una definitiva erosione dell’indipendenza politica e strategica. Il che ha comportato l’ascesa dei cosiddetti partiti “estremisti”: i nazionalisti dell’AFD e la rinascita, secondo Amar, della Linke, partito di sinistra lontano dal centrismo socialdemocratico. Secondo lo storico, si tratta del «collasso della Politica tedesca del dopoguerra».

A conti fatti, dunque, è – almeno per ora – la Germania la prima “vittima” delle stesse sanzioni occidentali: gli ultimi dati indicano che l’indice PMI tedesco delle costruzioni è sceso a 39,3 a settembre da 41,5 ad agosto, il livello più basso dall’inizio delle statistiche, mentre le società immobiliari hanno registrato il numero più alto di fallimenti degli ultimi sette anni. I principali istituti di ricerca economica tedeschi hanno tagliato le previsioni di crescita: si prevede che il prodotto interno lordo (PIL) tedesco si contrarrà dello 0,6% nel 2023, mentre l’aumento dei tassi di interesse incide sull’economia e l’elevata inflazione deprime consumo.

L’economia (di guerra) della Russia

Le stime di crescita dell’economia russa sono state riviste al rialzo dalla Banca Europea per la ricostruzione e lo sviluppo che, per il 2023, prevede una crescita del PIL russo pari all’1,5%, in linea con le previsioni del Fondo Monetario Internazionale (FMI). I fattori che hanno stimolato l’economia moscovita sono diversi, tra cui gli alti prezzi del petrolio – indice che il tetto al prezzo del greggio non ha funzionato – le nuove opportunità di esportazione con Cina, India e diversi Stati dell’Asia centrale, ma soprattutto la crescente produzione dell’industria bellica. Il governo russo ha dichiarato che, nel 2024, le spese per la difesa ammonteranno all’equivalente di 108 miliardi di dollari: il triplo del 2021 e il 70% in più rispetto a quanto previsto per il 2023. Una pressione eccezionale sull’economia che spiega in parte anche la crescita del PIL russo: la produzione è cresciuta più rapidamente e i nuovi ordini sono aumentati. L’espansione è stata in gran parte guidata dalla domanda interna: gli acquisti di input sono aumentati a un ritmo record tra gli sforzi per ricostituire le scorte belliche esaurite. Tra i maggiori risultati c’è stato un aumento di fiducia tra le imprese e la creazione di posti di lavoro che ha registrato l’incremento più forte dal novembre del 2000.

Allo stesso tempo, la Russia è alle prese con l’indebolimento del rublo che ha portato ad un aumento inflattivo: oggi il tasso di cambio del dollaro alla Borsa di Mosca ha superato per la prima volta dal 14 agosto i 101 rubli. Il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato che la Banca Centrale e il governo stanno adottando misure adeguate per risolvere questo problema. Al contempo, ha spiegato che è cominciata una trasformazione strutturale nell’economia russa, all’insegna della totale autosufficienza da fonti esterne: «Sì, l’inflazione è aumentata, ma siamo riusciti a far sì che i nostri produttori aumentassero il fatturato nella produzione dei beni di cui avevamo bisogno. Ora ci sosteniamo completamente con tutti i prodotti agricoli di base, con gli alimenti principali», ha spiegato durante la sessione plenaria del Forum di Valdai, aggiungendo che «la situazione dell’economia nazionale è stabile e tutti i problemi dovuti alle sanzioni sono stati superati».

La crescita degli USA e il “destino” dell’Europa

Il dissolvimento della cooperazione politico-economica tra Russia ed Europa ha favorito la crescita statunitense, il cui PIL è stato rivisto al rialzo al 2,3% nel 2023. L’Europa, e in particolare la Germania, si configura così come principale vittima delle strategie degli “alleati” a stelle e strisce, confermando come i suoi interessi commerciali convergano molto più con quelli russi che non con quelli americani. «Alcuni personaggi pubblici europei, che sicuramente non hanno uno stato d’animo positivo e amichevole nei confronti del nostro Paese, hanno formulato una diagnosi corretta: la prosperità [europea] si basava sulle risorse energetiche a buon mercato [dalla Russia] e sullo sviluppo del mercato cinese», ha asserito Putin a Valdai.

La perdita di identità culturale e politica del Vecchio continente è causa non solo del suo crollo economico e demografico, ma anche della sua completa irrilevanza a livello geopolitico e geostrategico: oggi, dopo circa diciotto mesi dalla subordinazione europea alle strategie atlantiche nel contesto della crisi ucraina, si toccano con mano le prime conseguenze di quelle scelte: il rallentamento economico tedesco sta influenzando, infatti, anche l’Italia che ha registrato un calo soprattutto nel settore manifatturiero e edilizio ed è vessata – come tutti i Paesi Ue – dall’inflazione e dall’aumento dei tassi d’interesse. Nel panorama globale, si può già notare come l’Europa sia ridotta a satellite non solo degli USA, ma anche dei nuovi teatri economici nascenti, costituiti soprattutto dall’asse orientale. Una situazione che potrà essere modificata solo con la riappropriazione dell’autonomia politica e strategica che passa necessariamente attraverso la riacquisizione di un’identità forte del Vecchio continente, ora ridotto a vuota entità di natura esclusivamente finanziaria e monetaria. Una circostanza che risulta però impossibile all’interno dell’architettura istituzionale e geopolitica dell’UE, che è stata la prima a forgiare il volto della “Nuova Europa” delle banche e delle multinazionali, prostrata a Washington.

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