«La parola è un potente signore, che col più piccolo e impercettibile dei corpi riesce a compiere le imprese più divine». Così scriveva il filosofo greco Gorgia nell’opera “Encomio di Elena”: la parola – il logos – ha, infatti, il potere non solo di persuadere e formare le opinioni, ma anche di plasmare i contenuti della mente e il pensiero stesso, riuscendo a confondere abilmente il vero e il falso: per questo, essa è strumento tanto potente quanto pericoloso. La concezione del logos proprio dei sofisti e dei retori – antesignani del nichilismo moderno – nega ogni realtà all’essere e, dunque, alla verità elevando la parola ad unica creatrice di senso e promuovendo la completa autonomia del linguaggio: quest’ultimo dunque, è completamente scollegato dalle cose e viene elevato a massimo strumento di persuasione che, nell’epoca attuale, si è trasformata in potente mezzo di manipolazione grazie alla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa controllati dalle élite politiche ed economiche della struttura sociopolitica capitalista: l’informazione, infatti, è in larga parte la cassa di risonanza degli interessi e delle posizioni ideologiche e geopolitiche della classe dominante ed è utilizzata per la creazione del consenso.

Secondo Noam Chomsky, il compito dei mass media è quello di “inculcare negli individui valori, credenze e codici di comportamento atti a integrarli nelle strutture istituzionali della società di cui fanno parte. […] per conseguire questo obiettivo occorre una propaganda sistematica”[i]. A tal fine il potere della parola è imprescindibile, in quanto attraverso essa è possibile non solo veicolare precisi contenuti, ma anche instillare sentimenti di diversa natura – dalla paura al senso di colpa – facendo leva sull’emotività e sul conformismo delle masse. Dall’apparato mediatico vengono quindi usate e ripetute precise parole atte a inculcare determinati comportamenti o a demonizzarne altri, come “resilienza”, “terrorismo”, “negazionismo”, “riscaldamento globale antropico”, “populismo”, “ultradestra”, “xenofobia” solo per citarne alcune: ognuna di esse ha un preciso scopo ed è in grado plasmare la percezione, l’opinione e i comportamenti dell’opinione pubblica rispetto alle tematiche principali dell’agenda del globalismo liberale.

L’uso della parola come “pharmakon”

L’uso strumentale delle parole è l’esito indiretto e inconsapevole di una concezione secondo cui il linguaggio sarebbe scollato dall’ordine delle cose e dall’essere, costituendosi così come sfera autarchica, indipendente dalla conoscenza e dai concetti di vero e falso: è per questo che i sofisti intendevano la parola come “pharmacon” che in greco ha il doppio significato di “medicina” e di “veleno”. La parola senza aderenza alla realtà, infatti, diventa un mero strumento di persuasione che può, allo stesso tempo, curare e alleviare l’animo di chi ascolta, ma anche manipolare, ingannare e ipnotizzare l’ascoltatore. Attraverso la parola non è solo possibile infondere concetti, opinioni o comportamenti nella mente degli uditori, ma anche forgiare una vera e propria realtà fittizia o sovvertire l’identità culturale di un popolo: è quello che Gorgia dimostra in due opere che sono “L’encomio di Elena” e “La difesa di Palamede”. Nella prima, il sofista ribalta l’identità culturale greca, mettendone in discussione i fondamenti contenuti nell’Iliade, affermando che Elena – moglie di Menelao rapita da Paride, figlio del re troiano Priamo – è incolpevole: qualcosa di sconcertante nella cultura antica. È la dimostrazione che la parola può fare credere qualunque cosa, buona o malvagia, vera o falsa e questo perché non ci sarebbe ragione al di là del logos. È il logos che determina la realtà delle cose, non la realtà in sé. Si tratta di un approccio insidioso in quanto non solo nega qualunque verità spianando la strada al falso e all’inganno, ma sfocia direttamente nel nichilismo che nell’età moderna si realizza al massimo grado con il pensiero di Friedrich Nietzsche.

Similmente, un approccio che nega il legame reale tra cose e parole è quello del nominalismo che prevale in tutta l’età moderna e secondo cui i termini non esprimono l’essenza delle cose, ma sono soltanto dei “segni” convenzionali arbitrari attribuiti dall’uomo agli oggetti, e gli universali – ossia i concetti astratti rappresentati da generi e specie – non sono res (cose reali), ma sono solo nomi o “flatus vocis”, mere emissioni di suono. Di conseguenza, se non è possibile conoscere l’essenza delle cose e allo stesso tempo si possono combinare i nomi arbitrariamente perché non radicati nelle res, non è più possibile stabilire alcuna verità intesa come corrispondenza tra idee, nomi e cose: il primo effetto di questa impostazione è che la parola non è più specchio del reale – secondo la concezione della scolastica medievale – ma plasma essa stessa la realtà.

La lingua adamitica e l’unanimitas della filosofia scolastica

Sul versante opposto della concezione nominalista, si pone l’idea – molto più antica – di una lingua radicale e primigenia in cui non vi è alcuna discrasia tra vox e res (tra parole e cose) e da cui tutte le altre lingue sarebbero derivate: si tratta della lingua adamitica pre-babelica, ossia quella inventata da Adamo in cui tra nomi e cose c’è una perfetta corrispondenza. L’umanità possedeva allora un unico idioma che era perfetta espressione della realtà. Questa condizione però si infrange dopo l’atto di arroganza dell’uomo verso Dio, raccontato nell’episodio biblico della costruzione della Torre di Babele[ii]: in seguito a ciò l’umanità viene punita con la rottura dell’unitarietà del linguaggio e nascono molteplici idiomi cosicché gli uomini non sono più in grado di capirsi tra loro. Questo evento ha infranto ciò che la cultura medievale chiamava unanimitas, ossia un’ideale unità del sapere e della cultura che deriva dalla Rivelazione e che ha un suo corrispettivo anche sul piano linguistico: nella cristianità, l’unanimitas linguistica viene teologicamente ripristinata il giorno della Pentecoste, durante il quale grazie al dono dello Spirito Santo i discepoli cominciano a parlare in altre lingue facendosi capire dai devoti provenienti da tutte le nazioni del mondo. L’unitarietà del linguaggio è fondamentale perché riflette l’articolazione del reale, anch’essa unitaria, ed è quindi uno specchio del mondo e, allo stesso tempo, costituisce il modo che l’uomo ha di comprenderlo e, dunque di governarlo. Da qui nasce la perfetta corrispondenza – che costituisce un pilastro del pensiero medievale – tra ordo idearum, ordo rerum e ordo verborum, ossia tra il piano metafisico, la realtà effettuale e il pensiero umano espresso attraverso il linguaggio. Senza questa corrispondenza, il linguaggio non potrebbe assolvere la sua funzione principale, ossia strumento di conoscenza e organizzazione del mondo e mezzo per comunicare il pensiero. Anselmo d’Aosta è l’ultimo supremo autore medievale che sosterrà la corrispondenza tra questi ordini, formulata attraverso il concetto di rectitudo, che è la corrispondenza di una cosa all’idea con cui Dio l’ha pensata e ha voluto che fosse. Il Logos o Verbo – secondo Persona trinitaria – gode di una rectitudo assoluta in quanto dice le cose create e, dicendole, le fa essere: è solo Dio, dunque, che crea attraverso il suo Verbo, luogo teologico della creazione, in cui sono presenti gli archetipi eterni o idee cause della realtà effettuale. L’ampia riflessione sul linguaggio della scolastica ha fatto sì che i pensatori medievali siano i veri fondatori della semiotica, che è la scienza dei segni: per loro, infatti, le parole sono i più naturali ed efficaci “signa” che conducono l’intelligenza alla comprensione delle verità immutabili. Riflettere sul linguaggio significa riflettere sull’articolazione del reale.

Nietzsche e il linguaggio come metafora

Tutta questa impostazione, che contempla la perfetta conformità tra il pensiero umano, la realtà creata e il piano metafisico, viene frantumata con il dissolvimento del legame tra parole e cose prima e con la diretta negazione del primato e dell’esistenza del piano metafisico, dopo. In questo modo, il linguaggio non riflette più la realtà, ma diventa mero strumento convenzionale per comunicare qualcosa di cui però non si ha reale conoscenza perché l’essenza delle cose diventa inattingibile. Uno dei maggiori sostenitori di questa prospettiva è il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche, la cui attenzione per il linguaggio nel suo sistema di pensiero è grandissima: in estrema sintesi il pensiero nietzschiano è un pensiero antimetafisico, caratterizzato da un’antropologia negativa, in cui la verità viene considerata inconoscibile e qualcosa a cui comunque gli uomini non sono interessati, in quanto il loro obiettivo è l’autoconservazione e il linguaggio non potrà far altro che portare il calco di tutto questo. Esso, dunque, non esprime la verità, ma si limita a costruire metafore. Il filosofo si interroga apertamente sul linguaggio e la parola nel saggio “Su verità e menzogna in senso extramorale”: “Come stanno le cose rispetto alle suddette convenzioni del linguaggio? Sono forse prodotti della conoscenza, del senso della verità, forse che le designazioni e le cose si sovrappongono? Il linguaggio è dunque l’espressione adeguata di tutte le realtà?”. “Che cos’è la parola? Il riflesso in suoni di uno stimolo nervoso”[iii]. Questo stimolo è traferito anzitutto in un’immagine: prima metafora. L’immagine è poi plasmata in un suono: seconda metafora. La parola, dunque, non esprime la verità, perché quest’ultima è inconoscibile, ma esprime una verità “arbitraria” costruita dagli uomini. Allo stesso tempo, la parola così intesa porta con sé sempre un certo grado di finzione perché non può mai cogliere la cosa come realmente è.

La parola per plasmare l’opinione

La parola viene così ridotta a strumento di persuasione che produce, a sua volta, l’opinione (in greco doxa): la doxa è una forma di conoscenza mutevole e incerta in quanto è legata all’ambito del divenire, ossia al mondo sensibile, che per sua stessa natura non è pienamente conoscibile in quanto costantemente mutevole. L’uso persuasivo del linguaggio – in grado di produrre solo un’opinione massificata – caratterizza anche e soprattutto il mondo mediatico, in quanto scopo dei media non è tanto informare, bensì creare il consenso, ossia persuadere. Creare il consenso significa non solo controllare il pensiero, ma produrlo e in questo la parola – intesa come “pharmakon” – ha un ruolo essenziale.

Per fare degli esempi concreti, negli ultimi anni, si sono affermati termini come “resilienza” che indica la capacità di un corpo di resistere agli urti senza rompersi: questo concetto – proprio dell’ambito materiale – viene traslato nell’ambito umano, riducendo l’uomo a oggetto, e contiene in sé un preciso “diktat” comportamentale: quello di “subire” i cambiamenti e le crisi ricorrenti del sistema capitalista in modo impassibile, senza “rompersi”. Il che significa non solo senza lamentarsi e senza ribellarsi, ma soprattutto senza pensare, ossia senza mettere in discussione ciò che accade indagandone le cause. Il resiliente è dunque colui che subisce passivamente. Il concetto di resilienza, a sua volta, è piuttosto vicino a quello di adattamento di matrice darwinista: sopravvive chi si adatta, ossia chi si adegua all’ordine dominante. Non a caso, il “darwinismo” nasce in concomitanza con la rivoluzione industriale e il liberismo anglosassoni dei quali pretende di costituire il “fondamento scientifico”.

Allo stesso modo, il termine “antropico” riferito ai cambiamenti climatici ha la funzione di colpevolizzare l’uomo. Esiste, infatti, un’ideologia antiumana – rappresentata da alcune forme di ambientalismo “estremo” – secondo cui l’umanità sarebbe per la Terra un cancro, poiché si tende a negare la profonda complementarità esistente tra l’uomo e la natura di cui è parte, per considerare la Terra come entità autonoma, separata e autosufficiente, che diventa così oggetto di un vero e proprio culto. In ultima istanza, la soluzione individuata per arginare questo presunto problema non sarebbe altro che la riduzione della popolazione. Una sola parola può, ripetuta costantemente e a livello subdolo, trasmettere una vera e propria ideologia a una vasta parte della popolazione. Allo stesso tempo, fa in modo che non si individui la vera causa dell’inquinamento e della devastazione ambientale: una ristretta élite plutocratica che dispone della maggioranza delle ricchezze del pianeta e che, attraverso il sistema industriale capitalista e l’uso di jet privati, inquina più di tutta la popolazione mondiale.

Anche il termine “populismo”, che sottende un implicito disprezzo verso le classi popolari, è teso a veicolare un preciso concetto, plasmando il pensiero delle masse: quello per cui il “popolo” – privo degli strumenti adeguati per prendere decisioni – deve affidarsi al governo degli “esperti”, promuovendo così indirettamente una precisa forma di governo, quella tecnocratica, che si attaglia perfettamente al dominio della tecnoscienza dell’era contemporanea e che si fa beffe della tanto ostentata democrazia rispetto alla quale è in assoluta contraddizione.

La parola, dunque, non è più riflesso del reale, ma di un’agenda politico-ideologica determinata, che viene instillata gradualmente e impercepibilmente nelle menti senza alcun tipo di coercizione. Abbandonato il Logos inteso come principio metafisico razionale, l’unico in grado di garantire l’aderenza e la specularità del linguaggio al reale, non resta che l’opinione standardizzata e acritica, base imprescindibile del consenso nei sistemi liberal-democratici.

[di Giorgia Audiello, pubblicato su L’Indipendente.online]

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[i] Noam Chomsky, Edward S. Herman, La fabbrica del consenso, la politica e i mass media, Il Saggiatore, 2014.

[ii] At. 2, 1-13.

[iii] Friedrich Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, Adelphi, 2016.

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