l'imperialismo Usa

Con l’uscita di Trump dalla Casa Bianca si è chiusa quella che è stata una parentesi di eccezionalità, un imprevisto tanto “miracoloso” per alcuni quanto indigesto per altri, nella storia d’America e del mondo.

Fin dall’inizio della sua presidenza, l’ex presidente è stato fortemente attaccato e criticato dagli ambienti altolocati della finanza globalista, dai salotti chic dell’intellighenzia sedicente democratica, falsamente inclusiva e irrimediabilmente conformista e dal potere mediatico internazionale, principale strumento per plasmare le coscienze e modellare quella che viene chiamata “opinione pubblica”.

In realtà, quest’ultima non è altro che un riflesso dei contenuti sapientemente inoculati dai mezzi di comunicazione di massa nel pensiero e nell’anima di miliardi di cittadini. La maggioranza delle persone sul pianeta non sa che quello che ritengono essere il loro pensiero è in realtà il frutto di una potente quanto invisibile operazione di persuasione e manipolazione, finalizzata al controllo delle masse e alla creazione del consenso. C’è, infatti, una perfetta corrispondenza tra l’opinione “della maggioranza” e i contenuti diffusi a reti unificate da quella che si spaccia come informazione, ma che in realtà non è nulla di più che propaganda.

Con il personaggio di Trump, questa operazione è stata spinta al massimo grado delle sue potenzialità e ha toccato il suo apice con gli incresciosi avvenimenti dello scorso sei gennaio. La sua presidenza è iniziata con attacchi scomposti e accuse prive di fondamento e non poteva che concludersi allo stesso modo. Tuttavia, ha lasciato un’eredità, una consapevolezza e una testimonianza al popolo americano che difficilmente potrà essere estirpata o totalmente accantonata come la cupola tecno-finanziaria internazionale si propone di fare.

Nel 2016, dopo la sua inaspettata vittoria, si è imposta prepotentemente la narrazione a senso unico di un presidente pericoloso e guerrafondaio: ci avevano detto che Trump avrebbe scatenato una guerra mondiale, che era stato eletto grazie all’appoggio di interferenze russe, che con la sua amministrazione le donne e le minoranze etniche avrebbero subito discriminazioni di ogni sorta, che l’America sarebbe piombata nell’oscurantismo e nell’autoritarismo con il riemergere dello spettro – sbandierato ogniqualvolta le circostanze lo richiedano – dei nazionalismi, argomento utilizzato impropriamente come grimaldello per giustificare lo smantellamento degli stati, in nome del multilateralismo e della “cooperazione globale”.

Un’analisi di realtà, invece, impone di considerare i fatti e da questi risulta che Trump sia stato uno dei pochissimi presidenti americani a non aver cominciato alcuna nuova guerra, ma – al contrario – ad averne scongiurate diverse e ad aver lavorato per “disinnescare” quelle cominciate dai suoi predecessori.
La bufala del Russiagate si è confermata, appunto, una bufala, le cui indagini hanno portato il procuratore speciale Robert Mueller ad affermare che non c’è alcuna evidenza che leghi Trump al Cremlino.

Il suo primo impeachment si è risolto in un nulla di fatto e il secondo – fortemente voluto dalla speaker “dem” della camera Nancy Pelosi – è l’unico strumento che i “democratici” hanno per annientare un avversario scomodo e amatissimo dall’elettorato americano, tanto da aver conquistato 75 milioni di voti.
È, infatti, un controsenso politico e giuridico l’impeachment ad un presidente uscente, in quanto la messa in stato d’accusa può essere valida solo nei confronti di chi è in carica. La paura di un suo ritorno sulla scena politica deve aver spinto il Congresso ad agire non solo in modo dissennato e sleale, ma totalmente illogico da tutti i punti di vista.

Trump contro tutti

Il magnate americano ha approvato il più grande pacchetto di tagli fiscali e di riforme e con lui l’economia americana ha registrato un’enorme crescita: il Pil è cresciuto in media del 3% annuo e la disoccupazione ha raggiunto i suoi minimi storici con un boom occupazionale che, secondo il Wall Street Journal, ha superato quello di Obama. L’ennesimo stereotipo mediatico di un’America sempre più afflitta dalle disuguaglianze e dalle discriminazioni, propugnato a tutti i livelli dai guardiani del pensiero unico e dai pretoriani dell’élite globale, è semplicemente smentita dai fatti: sempre secondo il Wall Street Journal, infatti, da quando Trump ha assunto la presidenza, la disoccupazione è diminuita del doppio sia per i neri che per i bianchi e quasi un milione di neri e due milioni di ispanici hanno trovato un impiego dal 2016 in avanti, mentre le minoranze rappresentano oltre la metà di tutti i nuovi posti di lavoro creati durante la presidenza Trump.

Questo boom economico e occupazionale è stato intaccato solo nella fase iniziale dall’emergenza sanitaria dovuta al Coronavirus che, del resto, ha colpito i Paesi di tutto il mondo.

Dunque, perché Trump è rappresentato dai media come una sciagura e come uno dei peggiori presidenti della storia americana? Per il semplice fatto che ha messo in discussione i pilastri su cui si basa la governance globale, ossia quell’organizzazione di potere da cui promanano le direttive internazionali che modellano i sistemi economici, politici e sociali di interi continenti e che si riunisce in forum e convegni mondiali annuali come quello di Davos, che va sicuramente annoverato tra i più importanti.

È proprio da questa idea di governance, orientata esclusivamente al profitto, all’incremento dell’economia finanziaria a scapito di quella reale, allo sviluppo della quarta rivoluzione industriale e della digitalizzazione dell’umano, che derivano le vere disuguaglianze. Basti pensare che con l’incremento dell’e-commerce, incentivato enormemente dalla condizione imposta dei confinamenti sanitari, gli uomini più ricchi del mondo hanno raddoppiato la loro ricchezza e i colossi online, insieme alle Big Tech, sono diventati i veri padroni del mondo e hanno scavalcato – ormai da lungo tempo – il potere degli Stati.

Questa disposizione sempre più piramidale della struttura socioeconomica mondiale è sicuramente uno degli obiettivi cardine di quella che è una vera e propria guerra batteriologica in corso, ma che viene raccontata alle masse in modo volutamente fittizio ed edulcorato. Che sia una guerra, seppure non convenzionale, è confermato dal fatto che ci sono dei vinti e dei vincitori: non è un caso, infatti, che la Cina – epicentro dell’epidemia – sia stata la prima nazione a riprendersi e a registrare un incremento di Pil del 2% per fare immediatamente incetta degli asset e delle infrastrutture strategiche occidentali, a cominciare proprio da quelle italiane.

Ma il cuore pulsante dell’agenda globale è rappresentato dal “Grande Reset”: proposto dal World Economic Forum come programma per ripristinare le economie mondiali dopo la pandemia, all’insegna di una maggiore sostenibilità, è in realtà un progetto molto più ampio che travalica l’ambito economico per addentrarsi in quello sociale e antropologico con l’intenzione di cancellare una realtà e imporne una nuova: quella che ormai da quasi un anno è chiamata da giornalisti, politici e (pseudo) intellettuali “nuova normalità”. È il grande sovvertimento dell’umano in corso che non può prescindere, naturalmente, anche da un ripristino economico. Anzi, proprio quest’ultimo ne rappresenta il principale propulsore.

Trump è stato il presidente che si è opposto a tutto questo: all’agenda globale e al grande reset.
Ma non solo, è anche colui che ha riaffermato il principio in base al quale “una nazione esiste per servire i propri cittadini” ed è da questa convinzione che nasce lo slogan “America First”. Nel suo discorso di commiato, il tycoon ha ribadito questo concetto:

Abbiamo affermato di nuovo l’idea sacra che in America il governo risponde al popolo. […] Noi siamo qui per servire il nobile cittadino comune. La nostra lealtà non è verso gli interessi particolari di alcuni, le grandi aziende e le entità globali. È nei confronti dei nostri figli, i nostri cittadini e la nostra stessa Nazione.
[…] La nostra agenda non riguardava destra o sinistra, democratici o repubblicani, ma il bene di una nazione e questo significa l’intera Nazione”.

Ecco perché Trump è stato una parentesi di eccezionalità nel contesto politico americano e internazionale: perché ha subordinato l’agenda globale della plutocrazia capitalista al benessere dei cittadini, mettendo al centro due parole che introducono dei concetti ormai totalmente avulsi dalla dimensione politica: quelle di “uomo” (il cittadino comune) e di “bene”. In particolare, quest’ultima riabilita all’interno della sfera politica quella componente etica che nella tecnocrazia del capitale e delle multinazionali è stata sostituita dagli unici e intoccabili criteri dell’efficienza e della produttività. Per tale ragione, Trump ha combattuto solo contro tutti, sfidando un apparato inscalfibile di interessi. Gli interessi di una élite mondiale potentissima, organizzata e penetrante.

Così, mentre nei talk show televisivi imperversano subrette e maggiordomi del potere che si ergono a maestri di pensiero e che si agitano e si scompongono al grido di “Trump bugiardo, razzista e megalomane”, vengono totalmente oscurati i temi sostanziali su cui è stata costruita la sua amministrazione. Tra questi, non va tralasciato quello che è un argomento che fa infuriare i “progressisti” e le femministe di tutto il mondo: quello della sacralità della vita. Trump non solo ha sempre difeso la vita fin dalle prime fasi del suo concepimento, ma ha addirittura istituito – pochi giorni prima di abbandonare il suo incarico come Presidente – la “Giornata Nazionale della Santità della Vita Umana“.

Scardinamento dell’agenda globale e difesa della vita sono questioni più che sufficienti non solo per estromettere dalla Casa Bianca e dalla politica – magari con una manomissione dell’integrità del sistema di voto – l’ex presidente, ma anche per punirlo con una vera e propria “damnatio memoriae”: questa è stata la funzione dell’irruzione strumentale a Capitol Hill dello scorso sei gennaio. Dalle indagini in corso, infatti, sta emergendo in modo sempre più chiaro come quella che è stata marchiata dai media di tutto il mondo come un’incursione violenta dei “sostenitori di Trump” sia stata in realtà un’azione voluta proprio per screditare e demonizzare l’elettorato trumpiano e lo stesso Trump. Sono metodi ampiamenti diffusi negli ambiti militari e di intelligence, noti come “operazioni sotto falsa bandiera”.

Nessuno, infatti, può pensare che uno dei luoghi più presidiati e sorvegliati al mondo (o che dovrebbe essere tale) possa essere preso d’assalto con tanta facilità; e infatti gli “aggressori” sono stati fatti entrare di proposito dagli agenti e ciò è riscontrabile attraverso i numerosi video a disposizione. Se poi si pensa a chi ha maggiormente strumentalizzato l’evento, se ne può facilmente dedurre che esso scaturisca da una precisa orchestrazione che aveva come finalità non solo quella di distruggere e infangare il “trumpismo” nell’immaginario collettivo, ma anche di creare i presupposti per una repressione dei suoi sostenitori, attraverso gli stereotipi del politicamente corretto che suonano come dei refrain confezionati ad hoc per inibire il pensiero: uno su tutti “vincere l’odio”.

Il ritorno dell’America

All’uscita di scena di Trump ha fatto immediatamente seguito quello che i media di tutto il mondo hanno celebrato entusiasticamente come “il ritorno dell’America”. Ma cosa si intende esattamente con questa espressione?

L’America è il cuore dell’impero capitalista e tecno-finanziario e, in quanto tale, rappresenta il perno centrale attorno a cui ruota non solo la costruzione di una ideologia e di una visione del mondo globale e livellatrice, ma anche il desiderio intrinseco di assoggettare alla propria sfera di influenza e di dominio quegli stati non allineati a tale visione. Per uniformare gli stati “dissidenti” al paradigma neoliberista, al modello sedicente democratico del liberalismo occidentale e alla cultura “del progresso” di matrice positivista, il globalismo si è dotato di alcuni strumenti indispensabili rappresentati dalla NATO, dalle istituzioni sovranazionali e dall’interventismo. Questi ultimi – strettamente correlati tra loro – usano come copertura e giustificazione i temi dei diritti umani, della guerra al terrore e di presunte minacce che si sono il più delle volte rivelate infondate.

Il “ritorno dell’America” consiste allora nel suo essere tornata a ricoprire il ruolo di principale attore geopolitico nel coordinamento delle politiche globali multilaterali, nell’intenzione di voler “ripristinare” e consolidare l’alleanza atlantica e di riprendere le azioni interventiste nelle aree strategiche dal punto di vista delle materie prime, degli equilibri geopolitici e dei rapporti di forza. Tutte azioni che Trump aveva confinato fuori dalla sua agenda politica per privilegiare soluzioni diplomatiche e accordi di pace come quelli stipulati tra Israele e alcuni paesi arabi (accordi di Abramo), ma non solo. Importanti sono anche le trattative diplomatiche che hanno portato alla distensione dei rapporti con la Corea del nord (Trump è stato il primo Presidente americano ad entrare in Corea del Nord e ad incontrare Kim Jong-un nella zona smilitarizzata che divide in due il Paese), all’avvio delle trattative di pace con il governo dell’Afghanistan grazie al ritiro di parte dei contingenti USA nella zona e soprattutto all’allentamento delle tensioni con la Russia.

Quest’ultimo punto è il più delicato perché la Russia rappresenta l’ultima grande potenza in grado di opporsi in modo determinante al progetto distopico dell’Occidente liberal-capitalista ed è quindi proprio su questo piano che è alto il rischio di un conflitto potenzialmente devastante per il mondo.

Le continue provocazioni rappresentate dalle ingerenze nella politica interna della Federazione e dal finanziamento alle cosiddette rivoluzioni colorate nei Paesi vicini alla superpotenza, come la Bielorussia e l’Ucraina, possono inasprire i rapporti fino a sfociare in un conflitto aperto. È bene sottolineare che tali provocazioni trovano la loro massima “legittimazione” nel ridondante e ipocrito stereotipo della difesa dei “diritti umani” (la cui massima esemplificazione è oggi quella del “caso Navalny”, palesemente pensato come potenziale “causus belli”), amplificato quotidianamente dai media occidentali che sono i megafoni del deep state mondiale.

La vicepresidente Kamala Harris ha già annunciato il supporto dell’amministrazione Biden a Israele contro l’Iran, promettendo 38 miliardi di dollari in aiuti militari durante la prossima decade, mentre Antony Blinken, il nuovo segretario di Stato che si occuperà della politica estera, è noto per essere stato un grande sostenitore dell’intervento militare americano prima in Iraq nel 2003 e successivamente in Siria. Secondo la rivista americana “Politico”, Blinken “crede che la diplomazia debba essere “integrata dalla deterrenza” e che la forza possa essere un completamento necessario per una diplomazia efficace”.

Le accuse che venivano mosse a Trump si sono certamente rivelate infondate, ma i rischi di nuove tensioni e nuove guerre potrebbero concretizzarsi, invece, proprio con coloro che li paventavano. Infatti, è esattamente in quel Deep State che si trova ora nuovamente nella stanza dei bottoni e contro cui Trump ha coraggiosamente lottato che risiede l’anima bellicista e imperialista dell’America.  

Trump è apparentemente all’angolo e sconfitto, ma sappiamo attraverso diverse fonti che la sua azione e il suo servizio per la libertà e la giustizia non finiranno qui. Trump potrebbe avere ancora un ruolo da svolgere nelle dinamiche di potere mondiali per riequilibrare i pesi tra forze contrapposte e per questo l’America delle guerre umanitarie e dei bombardamenti democratici lo teme e vorrebbe eliminarlo con un impeachment “alla memoria”.

È quell’America che tutti i media mainstream esaltano e incensano e che non può perdonare a Trump di aver fatto perdere ingenti capitali ai signori delle armi e della guerra e di avere “rallentato” i piani globali per almeno quattro anni. Quattro anni di eccezionalità.

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